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di Guido Stampanoni Bassi*

Il Dubbio, 19 luglio 2023

Capita ormai con regolarità, per lo più nell’ambito di vicende di cronaca particolarmente sentite, che sentenze che si discostino - magari anche solo leggermente - dalle aspettative dell’opinione pubblica vengano definite “choc” o “vergognose”. Il fenomeno non è nuovo e, negli ultimi anni, si trovano decine di casi: sentenze magari impeccabili da un punto di vista giuridico, che vengono però trasmesse all’opinione pubblica come inaccettabili.

Uno dei casi più noti degli ultimi anni è quello della strage di Viareggio, con riferimento alla quale la pronuncia della Cassazione - laddove ha escluso l’aggravante delle norme antinfortunistiche (con conseguente prescrizione di alcuni reati) - ha suscitato grandi polemiche al grido di “Viareggio senza colpevoli”. Oppure pensiamo alla sentenza che, nel processo sulla strage di Rigopiano, ha assolto 25 dei 30 imputati. Anche qui solito copione: “Rigopiano, strage senza colpevoli” con ministri che hanno twittato: “Questa non è “giustizia”, questa è una vergogna”.

Complice una narrazione giornalistica che spesso alimenta aspettative di condanna - facendo circolare il messaggio secondo cui gli indagati devono certamente essere colpevoli - ogni provvedimento che osi poi discostarsi da tale narrazione finisce con lo scatenare polemiche. Il semplice fatto che vi possano essere delle assoluzioni non viene tollerato. Celebre, ancora, la vicenda dell’uomo assolto a Brescia per aver ucciso la moglie in preda a un “delirio di gelosia”. Anche in quel caso, aspre polemiche nei confronti dei giudici accusati di aver derubricato un femminicidio in un effetto collaterale da malattia mentale e di aver fatto tornare il nostro paese ad una situazione peggiore di quando esisteva il delitto d’onore.

Eppure, il presidente della Corte - il magistrato che ha recentemente condannato Davigo - aveva scritto una cosa tanto elementare, quanto illuminante: non si vuole riservare all’imputato un salvacondotto, ma semplicemente applicare un elementare principio di civiltà giuridica, quello della funzione rieducativa della pena, secondo cui non può esservi punizione laddove l’infermità mentale abbia obnubilato la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento.

In questi giorni oggetto di critiche sono state due pronunce molto diverse tra loro: quella del bidello accusato di aver toccato i glutei di una studentessa e quella dell’omicidio di Carol Maltesi. Sebbene gli esiti siano stati diametralmente opposti (assoluzione nel primo grado e condanna a 30 anni nel secondo), il trattamento è stato il medesimo: vergogna. La colpa? Sempre la stessa: essersi discostati dalle aspettative dell’opinione pubblica, la quale si aspettava (anzi, pretendeva) una condanna nel primo grado e l’ergastolo nel secondo.

Nel primo caso, le polemiche sono state alimentate da quella che è a tutti gli effetti una fake news, ossia quella secondo cui la palpata breve - sotto i 10 secondi - non sarebbero reato. La sentenza non ha mai affermato tale principio, avendo assolto l’imputato perché non vi era prova del fatto che lo stesso avesse effettivamente sfiorato volontariamente la studentessa. La possibilità che un Tribunale, in presenza di dubbi sulla colpevolezza dell’imputato, possa assolverlo ha mandato in cortocircuito il circo mediatico-giudiziario, facendo passare un messaggio esattamente opposto a quello su cui si fonda il nostro processo: ossia quello secondo cui, nel dubbio, il Tribunale deve (e non può) assolvere.

Infine, nella vicenda di Carol Maltesi, la Corte è stata accusata di aver emesso una sentenza “vergognosa” che “offende le donne”. Leggendo le motivazioni, ci si accorge però che sulle aggravanti che tanto hanno fatto discutere (premeditazione, futili motivi e crudeltà), la Corte ha richiamato principi affermati dalla Cassazione. Per quanto possa lasciare l’amaro in bocca, si deve accettare l’idea che esistano concetti che non hanno, sul piano giuridico, lo stesso significato che hanno nella vita di tutti i giorni.

Pensiamo alla aggravante della crudeltà, su cui i giudici, dopo aver ricordato che una certa quota di crudeltà è inevitabilmente insita in qualunque delitto cruento (quale omicidio volontario non è crudele?) e che la prova della crudeltà non può essere ricavata dalle condotte successive sul cadavere, ha applicato i principi secondo cui è crudele, da un punto di vista tecnico- giuridico, quel comportamento eccedente rispetto alla normalità, che sia finalizzato a determinare sofferenze aggiuntive alla vittima. Per quanto certe decisioni possano essere difficili da accettare, occorre tenere a mente che i Tribunali sono chiamati ad applicare le leggi e non a soddisfare le aspettative dell’opinione pubblica.

*Avvocato, direttore della rivista Giurisprudenza Penale