di Franco Cattaneo
L'Eco di Bergamo, 4 dicembre 2019
Parla Monica Lazzaroni, da sei anni Presidente del Tribunale di Sorveglianza a Brescia: "Il dato di conoscenza reale è fondamentale per vincere certi sentimenti di paura e perché i cittadini possano formarsi un pensiero critico".
Il Tribunale di Sorveglianza è un pianeta sconosciuto ai più: parliamo di un ufficio autonomo e specializzato, competente in via esclusiva a concedere, negare, revocare e gestire le misure alternative al carcere, che sono pene a tutti gli effetti. Un Tribunale spesso confuso, sbagliando, per dispensatore di un improponibile buonismo.
E invece, Costituzione alla mano, è quel "ponte" indispensabile fra carcere e società che cerca di restituire il detenuto alla cittadinanza civile nel quadro della sicurezza collettiva. L'obiettivo quasi sempre riesce e i conti di varia natura, anche per la società, tornano. "In questi anni le misure alternative al carcere sono aumentate moltissimo e ora c'è anche un'importante collaborazione con le Forze dell'ordine proprio perché venga sempre più qualificato il materiale istruttorio alla base delle nostre decisioni", spiega, nel suo ufficio a Brescia, Monica Lazzaroni, presidente del Tribunale di Sorveglianza, incarico che ricopre da sei anni.
La competenza territoriale di questo organo collegiale a composizione mista si estende a tutto il distretto della Corte d'Appello e comprende le carceri di Bergamo, Brescia, Mantova, Cremona, oltre alle Residenze per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza (ex ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere). In totale, a oggi, le misure alternative in esecuzione (soprattutto affidamento in prova al Servizio Sociale e detenzione domiciliare) sono 2.313, delle quali 1.918 riguardano Bergamo e Brescia insieme. Solo a Bergamo sono attualmente 800.
La presidente Lazzaroni, allieva di Giancarlo Zappa, un nome autorevole che conta parecchio in questo mondo, dal 1995 al 2013 è stata giudice di sorveglianza con giurisdizione sul carcere della nostra città. Il suo è uno sguardo sull'oggi e sul domani, che abbraccia gli istituti e il territorio.
Per restare ai fatti, come giudica la situazione a Bergamo?
"Al di là delle recenti vicende giudiziarie, l'istituto di Bergamo ha sempre rappresentato caratteristiche d'eccellenza nella gestione di tutte le attività trattamentali. Il carcere s'è avvalso della collaborazione dell'Università, molto presto rispetto ad altre realtà, la scuola interna è fondamentale e già da lungo tempo sono stati avviati percorsi di giustizia riparativa con il professor Ivo Lizzola e i suoi collaboratori nel rispetto delle vittime. Approcci proficui, con la presenza di numerosi studenti. Il tessuto sociale, poi, risponde e i progetti di legalità hanno coinvolto tanti studenti delle superiori".
Recentemente, nel quadro dell'iniziativa nazionale, la Corte costituzionale ha visitato il carcere di Bergamo...
"Quella della Consulta s'è rivelata un'operazione illuminata, unica e non solo in Italia. Due mondi, il carcere e i giudici delle leggi, così apparentemente lontani si sono incontrati. La vice presidente, Marta Cartabia, ha colloquiato con i detenuti, un dialogo davvero interessante. I reclusi, che avevano seguito il corso sulla giustizia riparativa attraverso i laboratori organizzati dai mediatori accademici e dalla Caritas, hanno denotato conoscenza e competenza".
L'opinione pubblica ha però difficoltà a recepire il concetto delle misure alternative, specie dopo alcuni recenti episodi che hanno fatto discutere...
"Il dato di conoscenza reale è fondamentale per vincere certi sentimenti di paura e perché i cittadini possano formarsi un pensiero critico. Concetti che ripeto sempre, specie agli studenti quando vado a parlare nelle scuole. Purtroppo, su questi temi, c'è disinformazione. C'è chi ritiene che il magistrato di sorveglianza sia un "perdonista professionale" e temo che questa definizione sia drammaticamente vera nell'immaginario collettivo. Il dibattito pubblico - come già sottolineava Zappa - è sclerotizzato sui temi della certezza della pena, naturalmente carceraria, perché socialmente rassicurante. Invece la magistratura di sorveglianza non è una giurisdizione votata all'indulgenza: il recupero della persona condannata e la sicurezza sociale sono due facce della stessa medaglia, due capisaldi ai quali attenersi scrupolosamente in ogni decisione. La magistratura di sorveglianza è un punto di riferimento nel cuore del complesso di istituzioni operanti per la realizzazione della legalità, un valore che qualifica la nostra appartenenza alla società".
Un deficit di conoscenza che ricade su tutta la filiera: voi giudici, la vita in carcere, gli itinerari ricostruttivi...
"La legislazione nazionale e quella sovranazionale hanno profondamente voluto un potenziamento dell'accesso alle misure alternative alla detenzione, che hanno più funzioni in un contesto di prevenzione. La pena, prima di tutto, deve essere efficace e utile per la società e non solo per il singolo. La sicurezza è un bene supremo, occorre però una cultura nuova che veda nei cittadini i principali, diretti artefici della propria sicurezza, responsabilizzandoli.
È un discorso tanto difficile quanto ingrato. Lo Stato è tutt'altro che onnipotente e il diritto alla sicurezza non è un regalo, bensì l'esito di un'azione collettiva, condotta giorno per giorno, il risultato di un complesso di azioni che dipendono anche dai singoli cittadini. La giurisdizione del Tribunale di Sorveglianza è centrata non sui fatti, ma sulla persona.
Non c'è una presunzione di affidabilità di qualunque condannato alla misura alternativa. Ma, là dove l'interessato abbia concretamente manifestato volontà di cambiamento, tocca all'intero sistema costruire percorsi che siano credibili, densi di contenuto e soprattutto personalizzati: questo è quel che chiede la Costituzione. Il reato ha sempre due vittime: quella del reato in sé e la società. Fortunatamente il territorio è fertile quanto a volontariato e a Terzo settore.
Fra l'altro adesso c'è anche il profit, perché con l'Associazione industriale bresciana abbiamo sottoscritto un protocollo: abbiamo avuto un primo assunto, mentre è in corso un'attività di formazione in tutte le aziende per far conoscere le realtà dell'esecuzione penale esterna".
Servirebbe più società?
"Di fronte ad una manifestata volontà di riscattarsi della persona, la collettività non può rimanere estranea al percorso di esecuzione della pena. E questo perché la pena deve certo punire e rieducare, ma deve anche essere "un castigo utile a chi lo infligge e da chi lo subisce". Utile pure alla società che ottiene un duplice risultato".
E cioè?
"Riduzione del ritorno a delinquere e pertanto maggiore sicurezza sociale. I dati ci dicono che le misure alternative funzionano, perché abbattono la recidiva. Investire nel carcere, quindi, significa investire nel nostro futuro, nella qualità del vita del nostro territorio. Secondo punto: minori spese a carico dello Stato e, in definitiva, di noi cittadini. Un detenuto costa 3.500 euro al mese e la recidiva ha un impatto economico e sociale elevatissimo. Abbattere la recidiva vuol dire contribuire alla crescita del Paese in termini di legalità, risparmio e competitività".
Eccoci di nuovo alla conoscenza, lo snodo per ricondurre la questione ai suoi corretti termini: i dati cosa dicono?
"Su 10 detenuti che espiano la pena interamente in carcere, 8 tornano a commettere reati. Viceversa, 8 su 10 affidati alle misure alternative non tornano a delinquere. Non tutte queste storie finiscono bene e bisogna lavorarci attorno: sono fallimenti e meritano la massima attenzione. Le misure alternative devono essere adeguatamente strutturate ed individualizzate per poter essere efficaci, anche e soprattutto per l'intera collettività che invoca sicurezza: non possono ridursi in un passivo affidamento in libertà e per questo servono investimenti umani e finanziari e comunità coinvolte.
Da un lato c'è un incremento delle misure eseguite, un maggior ricorso alla detenzione domiciliare e all'affidamento territoriale. Dall'altro osserviamo una flessione delle revoche per commissione di reati che sono sempre e comunque residuali: i fallimenti riguardano prevalentemente il reato di evasione dalle detenzioni domiciliari, che generalmente si consuma con l'allontanamento anche solo di pochissimo tempo dall'abitazione, e nel caso dei tossicodipendenti si tratta di reati connessi all'uso di sostanze.
L'esperienza, in ogni caso, dimostra che l'utilizzo della diffida o della sospensione, nei casi problematici, può favorire una ripresa della misura evitando così il ritorno in carcere. In definitiva, la percentuale di revoche- fallimenti nel nostro distretto è in linea con il dato nazionale. Questa circostanza significa che i giudizi alla base delle misure alternative sono puntuali e attenti, fondati su un materiale probatorio più affidabile in quanto più attuale e circostanziato. Le situazioni maggiormente vulnerabili si riferiscono ai tossicodipendenti provenienti dalla detenzione e, in prevalenza, l'andamento negativo è determinato dall'abbandono del programma terapeutico".
C'è infine il capitolo detenuti-famiglia...
"Bisogna tutelare il più possibile i legami affettivi, quando ci sono, perché non sempre è così. Le relazioni familiari risultano decisive e spesso la molla che fa scattare il cambiamento della persona. In parallelo vanno potenziate le attività lavorative e quelle socialmente utili, una sorta di ristoro alla collettività per il riconoscimento dell'errore compiuto.
Pur in un quadro sostanzialmente incoraggiante, è necessario investire maggiormente sulla giurisdizione che s'incentra sulla personalità: soprattutto più formazione negli istituti e potenziamento delle aree trattamentali e degli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna. La conoscenza della persona e la revisione del vissuto deviante richiedono interventi mirati, tecnici, specializzati e competenti. Anche per questo soffriamo un'enorme carenza di risorse che si riflette sul nostro materiale istruttorio".