sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Carlo Bonini


La Repubblica, 29 maggio 2021

 

A Guantánamo restano ancora oggi quaranta detenuti. Ma che quella prigione fosse nata per sete di vendetta e non di giustizia era già chiaro troppi anni fa. Il 18 maggio scorso, il cittadino pachistano Saifullah Paracha, 73 anni, diabetico e con un cuore malato, si è voltato un'ultima volta verso la prigione in cui aveva trascorso gli ultimi 18 anni della sua vita. Era il prigioniero più anziano di Guantánamo. E, in un'altra vita, quella pre 11 settembre 2001, aveva vissuto da uomo di affari, quale era, a New York e quindi in Tailandia, dove, nel 2003, era stato catturato e inghiottito dalla war on terror. Con lui, Uthman Abd al-Rahim Uthman, yemenita, detenuto da 19 anni senza che nei suoi confronti fosse mai stata formalizzata alcuna accusa.

Un commiato silenzioso, il loro. Annotato a margine dalle cronache. Primo rilascio di prigionieri autorizzato dall'amministrazione Biden dopo quattro anni di presidenza Trump in cui una sola era stata la partenza dall'isola. E che porta la contabilità del carcere in questa baia nell'angolo sud-est dell'isola di Cuba, scoperta da Colombo nel 1494 e concessa agli Stati Uniti durante le guerre ispano-americane per un assegno annuo di 4 mila dollari, a 40 reclusi. Uomini piegati dal nulla ossessivo di anni di isolamento, feriti nel corpo e nella psiche dalla memoria di torture, fisiche e psicologiche. Soprattutto, prigionieri due volte. Perché chiamati a camminare sul filo sottile della pazzia che è peculiare di chi non sa quale sarà il proprio destino. Se ci sarà cioè, prima ancora di un perché alla propria pena, anche un quando che le metta fine.

Già, perché nella nemesi della Guerra al Terrore, Guantánamo ha finito per fare prigionieri vittime e carnefici insieme. Le prime, in balìa di un diritto penale sostanziale e processuale speciale, battezzato dall'amministrazione Bush nella stagione successiva al martedì di sangue delle Torri gemelle e del Pentagono che, consegnandoli alla condizione di enemy combatants (combattenti nemici), li ha sottratti alle coordinate del diritto internazionale, alle convenzioni di guerra, scaraventandoli in un limbo giuridico che solo raramente ha avuto il suo naturale sbocco in un processo. I secondi, vittime della loro stessa macchina di detenzione che doveva essere, nelle intenzioni, il più formidabile, crudele, ed esemplare deterrente globale del terrorismo jihadista. Ma che è diventata una macchia indelebile nella reputazione della più grande democrazia del mondo libero, incubatrice di sistematiche violazioni dei diritti umani. Fantasma di ogni presidente Usa nel giorno del suo insediamento: Barack Obama (nel 2008 e nel 2012); Donald Trump (2016) e ora Joe Biden. Tutti pronti a promettere la chiusura di quelle gabbie tropicali. Nessuno in grado di tenere fede all'impegno.

Passi da marionette - Eppure, a voler leggere i segni, la premonizione della fine era scritta nel principio. Nelle prime immagini che, l'11 gennaio 2002, le televisioni americane recapitarono a domicilio nei tinelli di un Paese che aveva mosso guerra all'Afghanistan, che colpirono come un pugno l'alleata Europa culla del diritto, per rimbalzare nelle periferie di Asia, Medioriente, Africa, dove Al Qaeda giocava la partita decisiva del proselitismo e della Jihad. In quegli uomini in tuta arancione, costretti dalle catene ai polsi e alle caviglie a un movimento dinoccolato da marionette, resi ciechi da occhiali da saldatore che ne trasfiguravano il volto in qualcosa che ricordava quello di giganteschi insetti, mentre venivano infilati nella pancia di aerei militari per essere scaricati in un inferno caraibico agli antipodi della loro terra di origine, erano le stimmate di una vendetta più che di un atto di giustizia. E la loro ostensione dal vivo avrebbe poi reso quella sensazione una certezza.

Capitò una prima volta nel 2002, quando scortato dai marines, arrivai per Repubblica sull'isola insieme a un pool di giornalisti internazionali. Quando la prigione si chiamava "Camp X-Ray" e altro non era se non un'immensa stia di rete metallica e filo spinato, dove uomini in ginocchio sotto un sole assassino si offrivano allo sguardo di chi non potevano vedere dietro i loro occhiali da saldatore. Ma a cui potevano gridare nella loro lingua parole che potevano essere una maledizione, piuttosto che un'invocazione.

E capitò ancora nel 2003, quando, tornato a Guantánamo, potei documentare come l'ingegneria concentrazionaria, di fronte a un numero di prigionieri salito quell'anno a 700 (un picco mai più raggiunto), avesse trasformato nel nome (Camp Delta) e nella struttura (cemento armato, celle, reparto ospedaliero, sezione per minorenni) la sterrata della disperazione in una meticolosa macchina dell'afflizione. Di cui ogni dettaglio - quelli ostensibili, evidentemente, e non quelli chiusi nel segreto delle camere di interrogatorio riservate al personale della Cia, del Fbi e dell'Intelligence militare - veniva mostrato.

Dal contenuto calorico delle razioni di cibo per i prigionieri, alla consunta biblioteca di volumi e dvd in lingua inglese e araba, alle statistiche sull'incidenza dei disturbi psichiatrici negli "ospiti" in tuta arancione e, da quell'anno, anche bianca. Secondo una scala cromatica ritagliata sull'indice di pericolosità del prigioniero che voleva il colore più chiaro indice di avvenuta pacificazione con la condizione di detenuto sine die.

Per scrivere la vera storia di Guantánamo ci sono voluti anni e un paziente lavoro di svelamento. E dunque i rapporti della Croce Rossa Internazionale, quelli di Amnesty, le testimonianze di whistleblower (carcerieri e addetti agli interrogatori). E, naturalmente, la verità dei prigionieri che, nel tempo, sarebbero stati rilasciati, restituiti ai Paesi di origine. Molti, come Mohamedou Ould Slahi, per essere riconsegnati alla vita. Altri per constatarne il ritorno sui fronti della Jihad, nel perpetuarsi di quella maledizione della guerra che vuole che l'odio chiami odio.