di Roberto Gressi
Corriere della Sera, 29 maggio 2021
Di Maio e le scuse dopo l'assoluzione di Simone Uggetti. Sarebbe un errore da matita blu se la politica, ma anche la magistratura, non cogliesse l'occasione offerta da Luigi Di Maio, che in una lettera a Il Foglio, chiede scusa, senza giri di parole, per l'aggressione politica e mediatica al sindaco di Lodi, Simone Uggetti, assolto dopo cinque anni per non aver commesso il fatto, dopo aver subito l'offesa del carcere e delle dimissioni.
Ma ricorda anche il caso Tempa Rossa, che travolse Federica Guidi, allora ministra dello Sviluppo economico, con un'inchiesta ora archiviata, e accenna a tante altre vicende. Non manca chi accusa Di Maio di aver solo voluto mostrare a Giuseppe Conte che il leader del Movimento cinque stelle è ancora lui, o di arrivare tardi, fino al governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che lo paragona ai brigatisti che si pentono trent'anni dopo. Ma l'occasione è troppo interessante per bruciarla nel gioco politico. Quando è invece più importante valorizzare questo passo, sempre a rischio di ricadute, perché rifiuta la gogna come strumento di lotta politica.
E apre una riflessione in un movimento che primo fra tutti, ma in buona compagnia nella storia di questi decenni, ha fatto dei processi, ben prima che delle sentenze, uno strumento cannibale della vita quotidiana. Sfruttare l'ammissione di Luigi Di Maio, che definisce grotteschi e disdicevoli i modi con i quali i Cinque stelle, non da soli, condussero quello e altri attacchi, per assoluzioni generalizzate della politica, sarebbe furbesco e sbagliato.
Ma anche l'iperbole di una parte della magistratura, simboleggiata da Piercamillo Davigo, tuttora campione dei grillini, che pensa che non esistano innocenti ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti, è un gioco dialettico che non fa più sorridere. Altrimenti non si capirebbe perché la magistratura, che siamo stati sempre abituati a vedere solo appena un gradino sotto al presidente della Repubblica e spesso sopra alle forze dell'ordine nel gradimento degli italiani, segni oggi un preoccupante arretramento. La stragrande maggioranza degli elettori fatica a capire quali verità ci siano dietro alle vicende di Luca Palamara, con la spartizione delle nomine dei giudici e dei pubblici ministeri, o dietro la fantomatica loggia Ungheria, figlia di giochi di faccendieri. Ma è comunque abbastanza perché i cittadini non si sentano garantiti. Non riescono a capire, e proprio per questo non si fidano. È una costatazione che fa male, soprattutto pensando ai tanti, tantissimi magistrati che lavorano seriamente e a volte anche rischiando la vita, così come è già successo nel passato.
La barbarie giustizialista sfrenata, la delegittimazione dei giudici a fini di parte, l'attività di supplenza con la quale la magistratura si è spesso sostituita alla politica hanno prodotto danni enormi in un Paese come il nostro che continua a combattere ogni giorno contro la corruzione. Si riduce il coraggio di investire da parte degli imprenditori, si allontana la voglia di scommettere sull'Italia da parte del capitale straniero. Fino a costringerci anche a contare i morti, vittime della ricerca di un profitto al minuto e di meccanismi di scambio tra interessi privati e rinuncia alla sicurezza. Sono questioni particolarmente esplosive in giorni in cui l'Italia getta le basi per favorire con i soldi europei del Recovery fund un percorso di rinascita nazionale dopo la pandemia. Così come per altro verso è drammatica la situazione delle città, dove a pochi mesi dalle elezioni amministrative è sempre più complicato trovare candidati di livello disposti ad accettare la sfida per tanti motivi ma anche a fronte del rischio di essere inquisiti e perseguiti ogni volta che si prende una decisione.
Poi, al di là della politica, c'è la vita delle persone. Anni e anni di processi prima di arrivare a sentenza, con un sistema che fa della lentezza l'ingiustizia più grande. Danneggia chi non ha colpe, che intanto perde libertà, dignità, tempo di vita. Favorisce chi i reati li commette e si giova di questo clima di ritardi, incertezza e confusione. Non ci sono innocenti in Italia nell'uso privatistico della Giustizia, matrigna quando tocca noi e meritevolmente inflessibile quando travolge gli avversari del momento. Il fatto che proprio un leader dei fautori della forca, che anche sull'onda giustizialista hanno vinto sia le amministrative del 2016 che le elezioni politiche del 2018, si fermi ora a scusarsi e a ragionare, non va sprecato. C'è un governo di unità nazionale. Non dovrebbe essere illusorio pensare che si possa utilizzare il lavoro della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in collaborazione anche con l'opposizione e con la magistratura, per imprimere una svolta.