di Raimondo Bultrini
La Repubblica, 1 giugno 2021
Sono migliaia i militanti passati nelle celle del regime dei militari dopo le grandi proteste dell'88 e del 2007. E ora la prigione, costruita dagli inglesi a fine Ottocento, si riempie nuovamente di oppositori della giunta golpista. La più infame prigione birmana, tristemente celebre nel mondo col nome del quartiere Insein dove sorge fuori Rangoon, fu costruita dagli inglesi nel 1887. A quel tempo la vecchia Central Gaol, anche questa di loro costruzione, era stracolma e sebbene non ci fossero indipendentisti o dissidenti come i giovani della disobbedienza civile di oggi, l'alto numero di truffatori, assassini e banditi di strada richiedeva sempre nuovi spazi. I detenuti di Insein vivevano come ora ammassati in cameroni di cemento che formavano tante fette di un complesso circolare, una sorta di grande pizza architettonica - o Panopticon - ispirata al filosofo e teorico sociale britannico del XVIII secolo Jeremy Bentham, secondo il quale si poteva così controllare ogni movimento con una sola guardia di vedetta e truppe pronte all'esterno della "pizza".
Situata al termine di una strada ribattezzata col nome dell'eroe e martire della patria Aung San, padre di Suu Kyi che oggi è agli arresti in luogo sconosciuto, Insein è ancora la stessa prigione con le stesse strutture murarie e gli stessi gironi infernali divisi a spicchi. Si dice che qualche ripulitura e ritocco è avvenuto dopo l'avvento 6 anni fa del governo civile di Aung San Suu Kyi, che autorizzò una tv in ogni cella da 20, 30 ospiti e qualche ora d'aria in più. Anche sotto la sua fugace gestione durata 5 anni c'erano però detenuti politici soprattutto a Insein: 36 arrestati a maggio 2018 e 57 in attesa di giudizio, come rivelò quell'anno il leader dell'Associazione di assistenza ai prigionieri politici U Bo Kyi al Frontier Post. Ma era un numero risibile rispetto a quello delle migliaia e migliaia di militanti passati nelle celle del regime dei generali specialmente dopo le grandi proteste dell'88 e del 2007, anche quelle domate nel sangue.
Lo stesso Bo Kyi ha detto al New York Times che "ci sono più dissidenti ora rispetto a decenni fa", ovvero nei tempi più bui del regime. Tra questi risultano anche tre stranieri, due giornalisti americani tra i quali il direttore del Frontier Post e un consigliere economico australiano di Suu Kyi. Da qui la riaccesa attenzione del mondo sul luogo di detenzione e tortura per eccellenza dell'esercito, che ha cancellato molte vestigia del passato coloniale, ma non Insein e certe severe leggi imperiali inglesi, prese a modello come certe estreme discipline militari apprese dagli ex alleati giapponesi e ancora oggi insegnate nelle caserme.
Suu Kyi non è mai stata a lungo a Insein, la cui strada è intitolata proprio a suo padre "Bogyoke" Aung San, se non di passaggio e sempre in una cella speciale più confortevole. Gran parte del tempo lo ha passato agli arresti domiciliari presso la sua casa di famiglia sul lago Inya dove riceveva la Bbc e - a differenza di allora - le è precluso ogni contatto col mondo esterno nella località segreta della nuova capitale Naypyidaw dov'è rinchiusa, forse vicino al quartier generale dell'esercito. Secondo i legali è tenuta all'oscuro di ciò che sta accadendo nel Paese.
Non sa degli 800 morti in strada uccisi dai militari golpisti perché chiedevano la sua liberazione e la democrazia, né del gran numero di arrestati, tra i 5000 e i 10mila, o delle torture che molti di loro subiscono per aver partecipato al movimento di rivolta cominciato fin dai primi giorni di febbraio.
Attorno alla metà di quel mese la giunta militare - che aveva appena preso il potere arrestando leader e parlamentari della lega per la democrazia - concesse un'amnistia a ben 23mila detenuti perlopiù "criminali comuni" poi utilizzati per azioni di intimidazione contro i disobbedienti. Anche le celle di Insein come quelle di altre 55 carceri del Paese improvvisamente si svuotarono e molti presagirono che sarebbero presto state riempite da giovani della cosiddetta Generazione Z, scesi coraggiosamente in piazza a rischio non solo dell'arresto ma anche della vita. Infatti così sta accadendo.
Le perquisizioni casa per casa in cerca di ribelli continuano giorno e notte e le celle di Insein hanno ripreso ad affollarsi di nuovi ospiti, spesso ancora sanguinanti per le percosse o le ferite d'arma da fuoco subite in questi mesi di repressione violenta dell'esercito. Molti degli interrogatori avvengono ancora nell'apposito centro del carcere dove si utilizzano parecchi metodi di tortura senza curarsi troppo delle conseguenze. Il poeta Khet Thi è morto durante una di queste crudeli sessioni a Shwebo e il suo corpo è stato restituito alla famiglia con gli organi asportati per nascondere ogni evidenza.
In attesa di dettagli sulle nuove storie di orrore che racconteranno tanti altri detenuti del Movimento di questi mesi, per capire ciò che sta avvenendo basta rivedere i rapporti, le denunce e i racconti degli ospiti di Insein negli anni '80, 90 e inizio 2000, come il celebre U Win Tin, ex giornalista, fondatore della Lnd e confidente "critico" di Suu Kyi, che ha passato in carcere ben 19 anni. "Mi svegliavano continuamente per interrogarmi e sia che rispondessi o meno mi picchiavano al volto, così ho perso tutti i miei denti". Altri come l'ex monaco leader della Rivoluzione di Zafferano del 2007 sono usciti dal carcere con severi problemi mentali.
Nella sede dell'associazione degli ex prigionieri c'è un modello di Insein che ha 7 grandi reparti. In uno di questi, il numero 5 venne imprigionato U Bo Kyi con 140 detenuti in 30 metri per 15, ma in genere ogni stanza aveva ed ha circa 15 o 20 prigionieri. "C'era pochissimo spazio per dormire - ricorda Bo - dovevamo tutti stare coi corpi dritti e talvolta dormire sempre sui fianchi. C'erano solo 5 o 6 materassini in tutta la stanza, e dormivamo tutti sul pavimento di cemento". Senza parlare del cibo, "brodaglie con le ossa del pollo e riso della più infima qualità".
Oggi molte delle famiglie dei ribelli anti-dittatura fanno avanti e indietro con la lontana prigione per portare cibo ai parenti in cella senza la garanzia assoluta che gli sarà consegnato. Dei loro cari sanno poco o nulla, inghiottiti nell'inferno di Insein dopo averli visti portare via o aver saputo del loro arresto da altri testimoni. È la storia che si ripete, già raccontata con indignazione dalla stessa Suu Kyi nelle sue "Lettere dalla Birmania" parlando dei molti compagni di lotta tenuti anni in celle e spesso usciti morti. Ma nonostante il suo ruolo di capo de facto del governo non fece o potè fare ben poco quando ad esempio nel 2018 vennero arrestati e tenuti 16 mesi a Insein nel 2018 i giornalisti della Reuters U Kyaw Soe Oo e U Wa Lone. Erano gli autori di uno scoop da premio Pulitzer che rivelò almeno uno dei massacri di musulmani Rohingya compiuti dall'esercito nello Stato di Rakhine durante il governo del'Lnd.
Il New York Times riporta la storia del poeta satirico U Paing Ye Thu mandato a Insein nel 2019 - con Suu Kyi ancora al potere - per aver preso in giro i generali e condannato a sei anni. Quando è uscito di prigione ha raccontato dell'incessante arrivo di nuovi detenuti anche di alto profilo, compresi funzionari governativi estromessi. Ha visto decine di manifestanti della disobbedienza civile in attesa di cure mediche ed è rimasto scioccato nel vedere "così tante persone con ferite da arma da fuoco arrestate e mandate direttamente in prigione".
Di tutte le storie dei prigionieri politici passati dalle infami celle di Insein poche sono rimaste nella memoria dei più anziani e trasmesse ai giovani disobbedienti come quella di Tin Maung Oo. Era uno dei leader degli studenti che nel '74 trafugarono il corpo dell'ex segretario delle Nazioni Unite U Thant per rendergli gli onori che il regime negava. I carcerieri offrirono di risparmiargli la vita se avesse accettato di abbandonare l'attivismo politico e ammettere l'errore delle proteste, ma rispose con le parole divenute celebri e riprese da molti militanti di oggi: "Puoi uccidere il mio corpo ma non puoi mai uccidere le mie convinzioni e ciò che ho rappresentato. Non mi inginocchierò mai davanti ai vostri stivali militari!".