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di Francesco La Licata


La Stampa, 1 giugno 2021

 

Fa un certo effetto immaginare Giovanni Brusca che varca la soglia del carcere di Rebibbia da uomo libero, seppure sottoposto a qualche vincolo di controllo e, soprattutto, di protezione che lo terrà ancora per qualche anno sotto osservazione da parte di magistratura e investigatori.

Già, Brusca "u verru" (il maiale), per dirla col terribile nomignolo riservatogli da qualcuno dei suoi detrattori dentro Cosa nostra, il killer di fiducia della "cupola" di Totò Riina, il mafioso mai completamente emendato, neppure dopo il clamoroso "pentimento", il figlio di don Bernardo torna uomo libero dopo 25 anni trascorsi in carcere. E la mente, quasi per riflesso condizionato, torna all'autostrada di Punta Raisi sventrata dal tritolo da lui innescato. Tornano quelle terribili immagini del 23 maggio 1992: Giovanni Falcone con le gambe tranciate, la moglie, Francesca, che chiede, prima di spirare, "dov'è Giovanni?".

Le blindate accartocciate come scatolette e i resti di Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, la fedele scorta, sparsi per centinaia di metri. Può essere dimenticato tanto dolore? E può ancora soltanto impallidire il ricordo del piccolo Giuseppe Di Matteo? Era un bambino quando Brusca lo prese in ostaggio per usarlo come "argomento convincente", nel tentativo di indurre Santino, padre del piccolo divenuto collaboratore dello Stato, a ritrattare le rivelazioni già verbalizzate sulla strategia stragista di Totò Riina.

E non era ancora adolescente, Giuseppe, quando Brusca ordinò di strangolarlo (lo chiamavano "u canuzzu"). Fu Enzo Brusca, fratello di Giovanni, insieme con altri due animali, ad eseguire l'ordine e poi sciogliere nell'acido quel piccolo corpo denutrito. Ecco, tutto ciò basterebbe a classificare come "porcheria" la liberazione di Giovanni Brusca. Ma non è l'emotività, e non poteva esserlo, che ha guidato la mano dei giudici che hanno firmato la liberazione del mafioso divenuto collaboratore. Il dato certo, al di là del comprensibile smarrimento del cittadino spettatore, è che Giovanni Brusca esce dal carcere per fine pena. Cioè ha espiato le sue colpe, secondo un processo regolarmente celebrato e giunto a sentenza definitiva.

Certo una pena non pesantissima (rispetto alle accuse provate e confessate), ma giustificate da una legge che offre sconti ai pentiti. Una legge, correttamente applicata dai giudici, che nel conteggio fra costi e ricavi ha portato vantaggi allo Stato. Basti pensare alle conoscenze, giudiziarie e non, acquisite da tante collaborazioni e a quante vite sono così state salvate.