di Alessio Ribaudo
Corriere della Sera, 1 giugno 2021
Fedelissimo di Totò Riina e tra i responsabili della strage di Capaci, sarà sottoposto al regime di libertà vigilata per 4 anni. Era detenuto a Rebibbia. La vedova del caposcorta di Falcone: "Indignata".
È tornato a vedere il cielo da uomo libero, dopo venticinque anni, Giovanni Brusca: uno degli uomini più spietati e fedeli di Totò Rina, allora capo di Cosa Nostra. Grazie all'ultimo abbuono, previsto dalla legge, di 45 giorni, il sessantaquattrenne di San Giuseppe Jato, nel Palermitano, ha pagato il conto con la giustizia italiana e ha lasciato il carcere romano di Rebibbia. Come ha stabilito la Corte d'Appello di Milano, l'ultima a pronunciarsi su di lui, sarà sottoposto a controlli, protezione e a quattro anni di libertà vigilata. Brusca, noto anche come "'u verru" (il porco), è stato fra i protagonisti della stagione stragista dei Corleonesi.
Figlio di Bernardo, alleato fin dai tempi in cui il capo era Luciano Leggio, prese il suo posto come capo mandamento dopo l'arresto del vecchio boss nel 1985 che in cella morì senza mai aprire bocca. Fu tra i responsabili di delitti "eccellenti" come la strage di Capaci in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i loro agenti di scorta. Per sua stessa ammissione fu responsabile di centinaia di omicidi. Un numero così alto che lui stesso non è mai riuscito a dire con esattezza.
Fra di questi anche quello barbaro del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino: un bambino di 11 anni quando lo afferrarono, tenendolo sotto sequestro fra Palermo e Agrigento per due anni. Per indurre il padre a ritrattare ciò che aveva iniziato a mettere a verbale con l'allora procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, fu rapito il 23 novembre 1993 con uno stratagemma: uomini travestiti da agenti della Direzione investigativa antimafia. Giuseppe fu tenuto in ostaggio, tra vari covi, fino alll'11 gennaio 1996 quando decisero di strangolarlo e poi sciogliere il cadavere nell'acido nell'ultima "prigione" nelle campagne di San Giuseppe Jato. Brusca, dopo gli anni di sangue, volta le spalle a quell'infame codice mafioso e sceglie di diventare un collaboratore di giustizia.
Tantissime le reazioni, già a poche ore dalla notizia (potete leggerle tutte qui). Molte sdegnate, come quella di Tina Montinaro, vedova del caposcorta di Falcone, ucciso nella strage di Capaci: "Sono indignata - ha detto all'agenzia AdnKronos. Dopo 29 anni non conosciamo la verità sulla strage e Brusca è libero". Maria Falcone, sorella di Giovanni, ha commentato: "Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello, e quindi va rispettata". Poi ha aggiunto: "Mi auguro solo che magistratura e le forze dell'ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere".
Sulla stessa lunghezza d'onda è Luigi Savina, ex vice capo della polizia di Stato e dirigente della Mobile che catturò Brusca: "Faccio mie le parole di Maria Falcone e ne condivido ogni virgola". La notizia della scarcerazione ferisce chi è stato vittima di quella mafia stragista e non è morto per un soffio. "È un'offesa per le persone che sono morte in quella strage - ha detto Giuseppe Costanza, autista del giudice Falcone scampato alla strage di Capaci- e per me dovevano buttare via le chiavi". Giovanni Paparcuri, autista di Falcone nei primi anni Ottanta, rimasto ferito nell'attentato in cui morì il giudice Rocco Chinnici è indigato: "Non ho mai creduto al suo pentimento e mai ci crederò, io l'avrei fatto marcire in galera per tutta la vita per gli innumerevoli morti che ha sulla coscienza ma essendo in uno Stato di diritto e se la legge prevede che a questi assassini poi divenuti collaboratori spettano dei benefici, da buon soldato, ma a malincuore ne prendo atto e me ne faccio una ragione, anche se è molta dura, durissima".
Brusca, latitante, fu arrestato insieme al fratello Enzo a Cannatello, una frazione di Agrigento, il 20 maggio 1996 grazie a una rocambolesca operazione delle forze dell'Ordine. Erano da poco passate le 21 quando, davanti a un villino così vicino al mare da poter sentire lo iodio sfreccia una moto rumorosa: è il segnale. Gli uomini della Squadra mobile di Palermo, pronti a fare l'irruzione, captano lo stesso rumore mentre lo intercettano al telefono. La sua cattura è stata preparata a lungo, a partire dal ritrovamento di un'agenda con codici e numeri di telefono, a cui seguono indagini serrate, intercettazioni, appostamenti e l'obbligo di massima segretezza. Lui, un gradino sotto il capo dei capi di Cosa Nostra, viene colto di sorpresa e prova una fuga disperata dal retro. Inutile. Gli uomini della catturandi lo ammanettano e a tutta velocità lo trasferiscono in Questura a Palermo. Brusca non proferirà una parola lungo tutto il viaggio.
Neanche quando passano sotto casa di Falcone. L'euforia degli agenti che arrivano a Palermo dopo l'arresto viene proiettata nelle televisioni di tutto il mondo: i mitra alzati, le urla di gioia, le sirene e i clacson che suonano all'impazzata. Dopo migliaia di ore di appostamenti, rischi corsi, false piste, il responsabile della morte di tanti poliziotti era finalmente stato assicurato alla giustizia. A Palermo il clima sembra cambiato. La notizia si è diffusa in città e gli agenti sono accolti dagli applausi dei palermitani che, invece, riserverà all'arrestato insulti.
Mentre affronta il primo interrogatorio, impassibile, con le manette ancora ai polsi che dovranno esser segate dai pompieri perché la chiave si ruppe nel tentativo di aprirle, altri agenti passano al setaccio il suo "covo": troveranno un guardaroba zeppo di indumenti firmati come si addiceva a un boss di prima grandezza, i giochi del figlio, biglietti e bloc notes con annotati i numeri delle estorsioni e del traffico di droga che Brusca continuava a controllare da lontano, coperto dalla mafia agrigentina. Poi verrà la partenza per il carcere dell'Ucciardone, dove resterà per sette giorni in isolamento totale, controllato a vista 24 ore su 24, nella stessa cella che ospita Totò Riina quando deponeva nei processi a Palermo.
Il percorso di collaborazione è stato complicato. Prima una "falsa" partenza che fu subito sventata dagli inquirenti e, poi, la scelta vera di vuotare il sacco arrivata nel 2000. L'alternativa sarebbe stata quella di scontare in carcere il resto della vita: proprio come era accaduto al padre Bernardo per via delle condanne ricevuto al maxiprocesso di Palermo istruito dai giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. "La mia non è una scelta facile - aveva detto a proposito della sua scelta - pesa la storia della mia famiglia, il dover accusare altri". Dalle sue rivelazioni sono arrivate sentenze su tanti omicidi di mafia, sugli attentati del 1993 a Roma e Firenze. Ha parlato anche sulla presunta "trattativa" tra Stato e mafia, dei rapporti con la politica e le connivenze con parte della burocrazia collusa.
Ha raccontato anche che avrebbe dovuto uccidere l'ex pluriministro democristiano Calogero Mannino. Il "golden boy" dello scudocrociato siciliano si salvò perché ci fu un contrordine: bisognava prima far fuori un monumento della giustizia italiana: Paolo Borsellino. Brusca è sempre stato uno che ha diviso l'opinione pubblica.
Negli anni scorsi non sono mancate le polemiche legate ai suoi "permessi premio" ottenuti grazie ai benefici riservati ai "pentiti" e alle richieste di uscita definitiva anticipata dal carcere. Per via degli sconti di pena riservati ai "pentiti affidabili" alla fine è stato condannato non a ergastoli ma a 26 anni di carcere. A conti fatti sarebbe dovuto uscire nel 2022 ma la pena si è accorciata ulteriormente grazie alla sua "buona condotta".
Da oggi, però, si apre l'iter per la gestione della sua libertà del boss e di quella dei familiari: dai servizi di vigilanza a quelli di protezione che gli spettano per legge. Tra l'altro Brusca con le sue dichiarazioni ha dato il via anche alle indagini sulla trattativa Stato-mafia, parlò del papello con le richieste del boss consegnato ai rappresentanti delle istituzioni che "si erano fatti sotto" per chiedere che cosa voleva, e dei successivi rapporti con la politica.
Sempre discusso, ma sempre ritenuto sostanzialmente attendibile, Brusca godeva da tempo di permessi premio, talvolta sospesi quando ne ha approfittato per violare qualche regola ma poi sempre ripristinati. Più volte ha chiesto gli arresti domiciliari, puntualmente negati dai giudici. Fino alla fine della pena, arrivata ieri.