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di Sergio Menicucci


L'Opinione, 20 giugno 2021

 

È terminato, per la diffamazione, il tempo di un anno concesso dalla Corte costituzionale al Parlamento per modificare le norme contenenti il carcere per i giornalisti condannati per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Risale al giugno 2020 l'ordinanza (numero 132) con la quale i giudizi della Consulta, invece di dichiarare subito la incostituzionalità dell'articolo 595 comma tre del Codice penale, avevano concesso al Legislatore un tempo sufficiente per rivedere la norma sotto giudizio della Corte europea dei diritti dell'uomo che per ben 4 volte avevano condannato l'Italia (vedi sentenza del marzo 2019 a favore del giornalista Alessandro Sallusti) per la non compatibilità delle pene detentive per i reati di diffamazione a mezzo stampa (considerata una aggravante). Una norma, quella del Codice penale italiano, in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

È trascorso un anno e nessun atto del Parlamento è stato adottato: la proposta di legge Caliendo è ancorata al Senato in Commissione giustizia. La scadenza della decisione è prevista nell'udienza di martedì quando la Suprema Corte si riunirà per decidere nel merito della questione, essendo arrivati a ben 25 i moniti della Corte al Legislatore non ascoltati.

Il rinvio di un anno è stato un atto di "cortesia istituzionale", confidando nella discrezionalità del Parlamento, unico interprete della volontà collettiva. La Corte si era avvalsa della novità introdotta con l'ordinanza 207 del 2018 quando non venne risolta subito la questione giuridica dell'aiuto al suicidio di cui era accusato il radicale Marco Cappato.

La norma sul carcere per i giornalisti non è stata modificata e quindi la Corte, salvo imprevisti dell'ultima ora, dovrà emettere una decisione. L'orientamento è tracciato. Nell'ordinanza del 2020 è scritto "il bilanciamento tra i diversi diritti coinvolti è diventato ormai inadeguato". Solo il Legislatore poteva disciplinare la materia sulla base "di non dissuadere per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale la generalità dei giornalisti di esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull'operato dei pubblici poteri".

Si torna così ai casi sollevati dai Tribunali di Bari e di Salerno con la questione di incostituzionalità della norma del Codice penale. L'argomento è stato maggiormente disciplinato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo la quale sanzioni o risarcimenti particolarmente afflittivi e pene detentive (anche solo minacciate e poi non eseguite) contrastano con l'articolo 10 della Convenzione in materia di libertà d'espressione. Secondo i giudici di Strasburgo il solo timore di questo tipo di provvedimenti potrebbe intimidire i giornalisti a renderli meno liberi d'informare, specie con inchieste delicate e rischiose.

La Corte costituzionale italiana aveva offerto al Legislatore le coordinate per un corretto intervento in questa delicata e complessa materia, tenendo conto che se il mestiere del giornalista è spesso a rischio, è anche pericoloso per chi subisce le conseguenze di una cattiva, distorta o preconcetta informazione.

I giudici di Strasburgo sono andati avanti. Il punto di equilibrio, hanno osservato, tra libertà d'informare l'opinione pubblica e la tutela della reputazione individuale non può essere pensato come immutabile e fisso, essendo soggetto ai necessari assestamenti alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione avvenuta negli ultimi decenni.