di Caterina Malavenda
Corriere della Sera, 20 giugno 2021
La Corte Costituzionale sta per abrogare le norme che prevedono l'arresto dei giornalisti. Ma il problema resterà insoluto. E se il timore del carcere non fosse il vero ostacolo per i giornalisti che vogliono fare il loro lavoro senza condizionamenti? E se il temuto effetto dissuasivo ("chilling effect") dovesse cercarsi altrove? Come hanno ricordato Martino Liva e Giuliano Pisapia, qualche giorno fa, la Corte costituzionale è in procinto - e per l'ennesima volta - di sopperire all'inerzia colpevole del Parlamento, probabilmente abrogando le norme che puniscono con la reclusione la diffamazione, commessa a mezzo stampa, oltre che con "qualsiasi altro mezzo di pubblicità", compresi dunque i social e i blog. Dopo, se così sarà, solo una multa punirà chi ha diffamato, senza che i numerosi problemi che affliggono l'informazione, però, trovino adeguata soluzione.
E dire che sono anni che Camera e Senato si palleggiano il disegno di legge, che avrebbe dovuto occuparsi, come la Corte ha sottolineato, "di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco".
E lo ha fatto finora, senza riuscire a mettere d'accordo le due anime, che si sono scontrate su ogni comma, combattute fra la voglia di ordire una trama, se possibile più penalizzante del carcere - prevedendo la multa da 10 a 50.000 euro, che è astronomica specie per chi non li ha e, per i recidivi, anche la sospensione obbligatoria dalla professione da uno a sei mesi - e l'esigenza di evitare "l'uso distorto dei procedimenti penali per fatti di diffamazione", introducendo la rettifica come causa di non punibilità e sanzioni pecuniarie dissuasive, per chi promuova liti temerarie o presenti querele manifestamente infondate, trascinando il giornalista in giudizi senza fine, complice la lentezza endemica della giustizia.
Certo, sulla carta, il rischio di esser condannati fino a sei anni per un articolo può avere un qualche effetto dissuasivo; e, tuttavia, è bene ricordarlo, in Italia attualmente la pena detentiva viene inflitta, di norma, solo quando i giudici non possono fare altrimenti, quindi no, non è davvero questo il pericolo maggiore per la libera circolazione delle informazioni.
Sono piuttosto - e l'elenco potrebbe essere assai più lungo - la mole di processi penali e civili, che può abbattersi su una testata, se disturba il manovratore, anche se ne difettano i presupposti, ed accade spesso, ma l'importante è farsi sentire e ora non costa nulla; o le irragionevoli ed elevatissime condanne risarcitorie, in difetto di criteri precisi e di un tetto massimo, che possono loro sì far paura, specie quando non si ha alle spalle un editore forte o disposto a farsene carico; o le telefonate ai direttori e il ritiro della pubblicità, per rappresaglia, quando basterebbe una rettifica ben fatta.
L'abrogazione del carcere, ovviamente non ne risolve neppure uno, anzi ha il perverso ed inevitabile effetto di eliminare un presidio per la difesa, l'udienza preliminare, che oggi, per la diffamazione aggravata a mezzo stampa, evita spesso processi inutili, quando si conclude, evento tutt'altro che raro, con il proscioglimento dell'imputato.
Così l'odierno flusso inarrestabile dei processi per diffamazione dalla querela al dibattimento, senza alcuna indagine, che accerti la verità dei fatti, riconosca il diritto di cronaca ed archivi il procedimento, assumerà proporzioni ancora più vaste ed intaserà ancor di più tribunali, quasi mai contenti di occuparsene, considerandoli per lo più un fastidio e tempo sottratto a questioni più serie.
Un'assoluzione che arrivi anni dopo, infatti, ha già comportato, per tacer d'altro, spese che non saranno mai più recuperate, perché il codice non prevede la condanna del querelante temerario al loro rimborso. Se il carcere verrà eliminato, dunque, la politica perderà la sola arma di scambio, fin qui usata per intervenire, non proprio con un occhio di riguardo per i giornalisti, sulle norme vigenti ed è prevedibile che una legge in materia, indispensabile come la Corte costituzionale ha ribadito, non veda più la luce.
Eppure questa potrebbe essere l'occasione giusta, sgombrato il campo dai diversivi, di sedersi tutti intorno ad un tavolo, per individuare le soluzioni migliori che garantiscano un difficile, ma non impossibile equilibrio fra diritti in conflitto; e che tutelino il singolo da gratuite ed ingiuste aggressioni e chi fa informazione dall'incubo di processi infiniti e risarcimenti milionari. Il silenzio ed il perpetuarsi dello status quo sarebbero una pena ben più afflittiva del carcere e sancirebbero la definitiva sconfitta del Parlamento.