di Giovanni Bianconi
Corriere della Sera, 24 giugno 2021
Inviata una finta smentita sull'uomo che accusò un ufficiale egiziano del pestaggio di Giulio. L'ultima manovra egiziana sul caso Regeni contiene una bugia e un'irrituale "difesa d'ufficio" dei quattro ufficiali della National security agency accusati del sequestro, delle percosse e dell'omicidio del ricercatore torturato e ucciso al Cairo tra la fine di gennaio e il 3 febbraio 2016. La scorsa settimana il procuratore generale della Repubblica araba Hamada Al Sawi ha incontrato l'ambasciatore italiano Giampaolo Cantini per consegnargli due documenti: un memorandum che contesta la ricostruzione della Procura di Roma condivisa dal giudice che ha ordinato il rinvio a giudizio degli imputati, e la risposta del Kenya a una rogatoria dell'Egitto. Secondo il comunicato ufficiale emesso al Cairo, questo secondo atto "riporta la smentita di quanto era stato sostenuto circa un agente di polizia keniano che avrebbe sentito un ufficiale di polizia egiziano, durante una riunione nella capitale del Kenya, che asseriva di aver avuto un ruolo nel rapimento e nell'aggressione di Regeni in Egitto".
Dunque si tratterebbe di una sconfessione delle dichiarazioni del teste Gamma (sigla di copertura attribuita dagli inquirenti italiana), il quale ha raccontato di aver ascoltato nell'agosto del 2017, in un ristorante di Nairobi, un egiziano poi qualificatosi come il maggiore Magdi Sharif (l'unico imputato che risponde anche di omicidio) confessare a un collega keniano di avere fermato e anche picchiato Giulio la sera del 25 gennaio 2016. Tuttavia dalla lettura del documento si scopre che le autorità di Nairobi non hanno smentito niente. Nella risposta inviata al Cairo, infatti, è scritto: "Risulta impossibile provvedere all'esecuzione della richiesta di assistenza, in quanto gli elementi riportati non sono sufficienti per identificare l'ufficiale di polizia keniano oggetto della richiesta".
Lo scambio di informazioni tra i due Paesi africani sembra basarsi su un equivoco, da capire se involontario o meno: l'Egitto aveva chiesto al Kenya notizie sul poliziotto interrogato dai magistrati italiani, e il Kenya ha replicato che a loro non risultava nulla, quindi erano necessari ulteriori dati che solo l'Italia poteva fornire. Ma i magistrati romani non hanno mai affermato che il loro testimone fosse un poliziotto, qualifica che invece si riferisce all'uomo al quale Sharif avrebbe confessato il sequestro di Regeni. Di più: a maggio 2019 l'Italia ha inviato una rogatoria in Kenya per verificare se c'erano elementi della presenza del maggiore Sharif in quello Stato nell'estate 2017, e altre informazioni utili proprio a identificare il poliziotto suo interlocutore. In oltre due anni, però, non è arrivata alcuna risposta.
Insieme alla falsa notizia della smentita keniana, l'Egitto ha anche inviato un lungo memorandum nel quale si contraddicono quasi punto per punto gli elementi d'accusa raccolti contro i quattro imputati. Per concludere che "la Procura generale egiziana ritiene i sospetti delle autorità investigative italiane il risultato di conclusioni scorrette, esagerate e logicamente inaccettabili, contrarie alle regole penali internazionali compresa la presunzione d'innocenza e la necessità di fornire prove inconfutabili contro gli indagati per processarli".
Il procuratore Al Sawi ha chiesto all'ambasciatore Cantini di trasmettere il documento al tribunale che dovrà processare i funzionari egiziani, ma attraverso i ministeri degli Esteri e della Giustizia il memorandum è arrivato ieri mattina in Procura, dove il capo dell'ufficio Michele Prestipino e il sostituto procuratore Sergio Colaiocco dovranno decidere come trattare questo atipico atto difensivo, che non proviene dagli avvocati bensì da un organo con cui c'è stata una lunga interlocuzione investigativa, prima che le strade si dividessero definitivamente con l'incriminazione dei quattro imputati.