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di Maria Brucale


Il Riformista, 24 giugno 2021

 

Cristo, "U figghio 'e Dio, u figghiu 'e Maria, u pazzu, Gesù u pazzu", è finito in carcere, destinato all'atroce supplizio. Tutta la sua opera è stata vana, come una Babele rasa al suolo. A nulla servirono "i passi sulle maree, i sandali ansanti e polverosi per le strade, il vino, i pani, i pesci moltiplicati". E ora, come può il suo sguardo scendere fino ai luoghi di privazione, nelle carceri, "cimiteri silenziosi, corpi senza nessuna pietà, senza una umana compassione"? In cui i ristretti giacciono negli abissi marini delle stanze spiate, nel sonno della coscienza e delle anime trasformate in manichini.

Il corto Stabat mater ha la regia di Giuseppe Tesi e ne esprime la forza del pensiero, il disincanto non rassegnato davanti alla natura dell'uomo, la profonda comprensione delle trame del sentire, delle fragilità, delle pulsioni, del nichilismo, dell'aspirazione al riscatto ed al recupero, della ricerca mai paga di opportunità. È interpretato da Melania Giglio e da Giuseppe Sartori, i protagonisti, che rendono pulsanti, sugli schemi della tragedia greca, i bellissimi versi in prosa, liberamente tratti da un testo di Grazia Frisina, e dai detenuti diversi per età, per etnia, per confessione religiosa, a rappresentare la vocazione del progetto di riunire in una concezione religiosa di sapore pannelliano dove "religo" è, appunto, unione, compenetrazione.

La fotografia diretta da Riccardo De Felice e le musiche originali di Marco Baraldi accendono la trama di suggestioni intimistiche e calzanti e accompagnano in un cammino che attraversa senza perdersi i sentieri più bui dell'uomo, nelle sue tribolazioni, nelle sue cadute. Un canto di dolore e di resurrezione laica raccolto da una madre universale che porta in sé lo strazio della perdita, lo smarrimento delle coscienze, la miseria dell'uomo, la potenza salvifica dell'amore che nella morte recupera il senso della vita. Un esercizio di libertà per i detenuti di Pistoia, per tutti i reclusi dei quali il regista disvela il bisogno struggente di partecipare, di raccontare, di emozionarsi, di sperare.

La violenza si esprime come negazione della ragione, furia insensata, deprivazione, in un non luogo che pretende che l'uomo cessi di essere per diventare; che deresponsabilizza per rieducare; che deprime per punire; che spegne per controllare; che annichilisce per contenere; che pretende di restituire alla vita libera risanate persone cui ha negato proprio l'essenza di vita, la coscienza di relazione, la sostanza di pensiero, la costruzione del giorno e del suo divenire, la prospettiva. "Allora è morto, è morto davvero? Ora è giunta la notizia della sua morte. Inchiodato al palo della sua colpa assediato da una muta di lupi, crocifisso. Con scandalo era venuto a questo mondo. Il bagliore di un risveglio diceva di essere. Il battesimo di ribellione". "Di te ridono tutti, o principe pagliaccio, Dio, uomo, fantoccio".

La carne esangue di un figlio che è figlio di ognuno è portata di peso fuori da quelle mura in cui il pianto non fa rumore da una madre che si fa carico della insopportabile fatica dell'addio nel dilaniante orrore della separazione e la restituisce alla terra in un ultimo gesto di pietà. La misericordia si cala sulle spoglie mortali vestendo di polvere quel corpo nudo, intatto nella sua bellezza, impeto straziante di infinito, anelito di ristoro di una dignità privata e mutilata. L'umanità tutta è ferita ma mai sconfitta. Torna a esprimersi scomposta e imperiosa e invoca, pretende attenzione. Si fa canto e danza, richiesta di aiuto, preghiera, inno alla speranza, attesa di futuro.