di Elisabetta Soglio
Corriere della Sera, 29 giugno 2021
Monsignor Redaelli, presidente dell'ente voluto dalla Cei e da Paolo VI nel 1971: "Sostituiamo l'assistenza con le altre "4A". Cosa vorrei ora? Che non servisse più". "La Caritas non fa assistenza. Sono altre quattro le "A" che ci caratterizzano: ascolto, accoglienza, aiuto, amore. Le persone hanno bisogno di essere ascoltate, perché da lì poi arriva l'accoglienza". Le persone, tutte: "Liberiamoci dalle etichette, come ha detto papa Francesco. La carità può e deve abbracciare tutti". Monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli è dal maggio 2019 il presidente di Caritas nazionale che celebra i suoi 50 anni di attività: e questa analisi dei bisogni (e delle risposte ai bisogni) parte proprio da allora.
Monsignore, come è cambiata la domanda?
"La Caritas all'inizio ha fatto un grosso lavoro per le emergenze: il terremoto del Friuli era stato un po' il battesimo perché a quei tempi non esisteva ancora la Protezione civile e andavano coordinati i soccorsi e gli aiuti. E poi c'era la necessità di avviare un intervento nazionale perché questi compiti venivano assolti da istituti religiosi e strutture parrocchiali, penso alla San Vincenzo, ma tutto restava molto relegato all'ambito locale. Fin dall'inizio si era cercato di fare attenzione ai nuovi fenomeni andando dove nessuno arrivava: a Milano, per esempio, il primo centro per l'accoglienza dei malati di Aids fu realizzato da Caritas. E poi sui temi della disabilità, soprattutto quella psichica: molte esperienze di accompagnamento e assistenza sono nate qui".
Questa attenzione ai bisogni è la vostra cifra anche oggi?
"Esattamente: capacità di elasticità e adattamento. Quando è scattato il lockdown quasi tutte le nostre Caritas, che hanno dormitori per i senza fissa dimora, in poco tempo li hanno trasformati in centri di accoglienza h/24, organizzando pasti interni e spazi comuni per non lasciarli al loro letto. E poi anche sul tema delle povertà alimentari, in crescita continua, stiamo potenziando la diffusione degli empori solidali: non abbiamo la pretesa di risolvere i problemi, ma di esserci".
Torniamo alla missione iniziale.
"La Pontificia opera di assistenza attiva fino al 1968 era una struttura del Vaticano che aiutava l'Italia a uscire dalla Seconda guerra mondiale: collegata a questa c'erano le Opere diocesane, molto autonome, che organizzavano anche servizi come le colonie per i bambini e altre attività complementari. Fu papa Paolo VI insieme con monsignor Nervo e altri a cambiare il passo: non più assistenza ma promozione della carità per lo sviluppo profetico della società. A Milano il cardinal Martini con il convegno Farsi Prossimo volle che ogni parrocchia aprisse un centro di ascolto e da lì, dai bisogni, presero vita progetti strutturati".
Come si preparano i volontari?
"Serve competenza: da sempre garantiamo una formazione di base per i centri di ascolto. Mentre per tematiche specifiche, penso ai disabili, alla psichiatria, ai migranti, ricorriamo a competenze specifiche".
C'è differenza fra la Caritas italiana e quelle straniere?
"Beh, sì. In Germania gestiscono l'aspetto socio assistenziale e socio sanitario: hanno 600mila dipendenti e un milione di volontari; anche in Francia la struttura è verticistica. Da noi Caritas italiana è il riferimento centrale delle Caritas, dove ogni parrocchia ha la sua, riferita a quella diocesana e il vescovo ne è responsabile. Ovvio che poi c'è un rapporto con i delegati regionali. Ma non esiste una struttura di dipendenza, perché l'idea è favorire l'attenzione ai bisogni che possono essere diversi da territorio a territorio. E poi in questo modo ogni comunità può crescere nell'attenzione di carità e anche questo è scopo della Caritas".
Nel vostro ultimo rapporto elencate nuove emergenze: quali?
"Abbiamo sempre i senza fissa dimora, ma l'emergenza sanitaria ha aggiunto persone che non trovano lavoro o che lo hanno perso. Molte famiglie che vivevano con due piccoli stipendi perdendone uno vengono a chiedere il pacco alimentare. Sono aumentati i numeri delle donne in difficoltà e dei giovani senza prospettiva. E poi stiamo gestendo il tema dei migranti: molti di loro avevano occupazioni precarie e sono rimasti a casa".
La "dimensione caritativa" di cui parla è cresciuta?
"Nel concreto sì, la risposta c'è. Ma se si parla in generale il tema dell'accoglienza non scatta subito. Per questo dicevo che dobbiamo liberarci dalle etichette e insistiamo sul far incontrare le persone: perché quell'incontro cambia l'opinione. Lo dice anche il Papa nella sua enciclica Fratelli tutti: la strada è quella".
Come è il rapporto con le istituzioni?
"A livello locale e sugli interventi direi che funziona con efficacia e correttezza e va molto bene anche il sistema di convenzioni. Forse abbiamo avuto qualche criticità su alcuni progetti per i migranti ma alla fine sono superate".
E nelle emergenze?
"Da quando c'è la Protezione civile noi non dobbiamo più arrivare con roulotte e tende ma svolgiamo un compito complementare: creiamo centri di comunità, stiamo vicino alle prime necessità delle persone, attiviamo gemellaggi".
Il volontariato resiste?
"Sì, e abbiamo anche un bel ricambio generazionale che è stato accelerato dal Covid quando molti ultra sessantenni per sicurezza sono stati fermati: ma sono subito arrivati i ventenni a sostituirli e questo è davvero un bel segnale".
Come garantite trasparenza nell'utilizzo dei fondi?
"Caritas italiana presta grande attenzione al tema: tutti i fondi che arrivano sono destinati a un progetto e vengono usati solo per quello come dimostriamo alla fine con una rendicontazione puntuale. Poi Caritas da qualche anno riceve una fetta consistente dell'8 per mille: attraverso le chiese i fondi vengono destinati alle Caritas diocesane ma anche qui legati a un progetto specifico che alla fine va rendicontato. Per esempio ultimamente c'è poca attenzione al mondo del carcere e mettiamo soldi a disposizione di progetti legati a questo tema: così incentiviamo anche le Caritas a intraprendere strade nuove. Comunque stiamo lavorando perché secondo me queste cose andrebbero raccontate di più e meglio".
C'è un calo di fiducia nei donatori che volete recuperare?
"La gente continua a fidarsi e a sostenerci, ma proprio per questo dobbiamo stare molto attenti e spiegare bene come vengono usati i soldi donati".
Cosa le piacerebbe che facesse Caritas nei prossimi 50 anni?
"Intanto le dico una cosa sulla organizzazione: gli attuali direttori di Caritas sono quasi tutti uomini, anche perché il loro percorso è molto spesso partito dal servizio civile quando era legato all'obiezione di coscienza. Abbiamo tante donne molto impegnate a livello di base, ma non nella dirigenza e questo mi dispiace perché le loro potenzialità vanno valorizzate meglio. Un altro tema è che il venir meno di molti istituti religiosi che coprivano un ambito di assistenza lascia un po' un vuoto: intendo dire che se i camilliani chiudono una clinica, Caritas non riesce a subentrare. E il venir meno di tali realtà, a causa del calo delle vocazioni, sta impoverendo la chiesa italiana".
Ma la sfida del futuro?
"Le nostre iniziative si chiamano opere-segno. Perché un'opera deve diventare un segno: non ha la pretesa di risolvere tutto ma è significativa anche per altre realtà e per far partire un'attenzione. Papa Francesco parlava della santità della porta accanto, ma c'è anche la carità della porta accanto e lì non c'è bisogno dello sportello della Caritas. Ecco: in futuro mi piacerebbe non ci fosse più bisogno della Caritas: significherebbe che i bisogni sono diminuiti, le fragilità sono accompagnate e che ciascuno ha imparato a esercitare la carità della porta accanto".