di Gennaro Migliore*
Il Riformista, 29 giugno 2021
Passato più di un anno, che senso ha mettere in cella degli agenti per evitare il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, proprio mentre le carceri scoppiano? Inutile spettacolarizzazione. "Nessuno tocchi Caino" non è una formula biblica ma è il fondamento costituzionale del nostro ordinamento penale.
Chi è sottoposto alla privazione della libertà, a seguito di una condanna, è nelle mani dello Stato, che deve esercitare il suo potere secondo l'articolo 27 della Costituzione, che impedisce trattamenti inumani e degradanti. A seguito di una rivolta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nel mese di aprile del 2020, il successivo intervento della Polizia penitenziaria era stato oggetto di una denuncia per fatti gravissimi, dalle lesioni fino alla tortura, reato che fu introdotto nel 2017 e che io seguii come sottosegretario alla Giustizia.
Proprio per questo, non intendo parlare delle contestazioni e del futuro processo cui saranno sottoposti 52 agenti della Polizia Penitenziaria per i presunti reati ascritti, poiché per quelli ci dovrà essere una verità giudiziaria da accertare in sede giurisdizionale. Qui vorrei sottolineare, invece, l'assoluta anomalia delle misure cautelari che hanno colpito gli indagati: si va dagli otto arresti in carcere fino a una ventina di detenzioni domiciliari, passando per obbligo di dimora nel comune di residenza e interdittiva dai pubblici uffici.
Ma la Magistratura di Santa Maria Capua Vetere ha riscontrato, dopo quattordici mesi (!), un pericolo di fuga o un possibile inquinamento delle prove? O forse si è temuto che vi fosse il pericolo di reiterazione del reato? Stiamo parlando di quattordici mesi passati senza che vi fosse nessuna di queste circostanze, o mi sbaglio? Per non dire della misura interdittiva che ha colpito il Provveditore regionale Antonio Fullone che, al netto dell'accertamento di eventuali responsabilità, è conosciuto, fin dai tempi in cui dirigeva il carcere di Poggioreale, per il suo equilibrio e per la sua capacità di gestire le situazioni più complesse con misura e senso delle istituzioni.
Ma allora perché ancora misure cautelari e non, invece, accelerare l'iter giudiziario? Del resto la stessa Procura aveva spettacolarizzato anche la consegna delle notifiche dei rinvii a giudizio facendolo fare all'esterno dell'Istituto, davanti ai colleghi e ai parenti dei detenuti. Un tratto dimostrativo/ disciplinare che mal si addice all'equilibrio che dovrebbe caratterizzare l'azione giudiziaria. Intanto le carceri scoppiano di nuovo e questa vicenda non farà altro che gettare benzina sul fuoco.
Dalla parte dei detenuti poiché, mentre aumentano i casi di autolesionismo e di condizioni insostenibili, mancano i provvedimenti per diminuire le presenze in carcere: dall'eseguire in maniera alternativa le pene residue sotto un anno o addirittura sei mesi, depenalizzare i reati bagatellari sanzionati con il carcere, rivedere l'eccesso di custodia cautelare preventiva e i detenuti in attesa di condanne definitive, che portano a migliaia i processi per ingiusta detenzione.
Dalla parte della Polizia Penitenziaria, al cui corpo giustamente la ministra Cartabia ha rinnovato la fiducia, che lamenta carenza d'organico, mancanza di una riforma strutturale che adegui le strutture penitenziarie alle previsioni di legge e che, soprattutto, è vittima di numerosi casi di violenza da parte dei detenuti, soprattutto psichiatrici, che dovrebbero stare altrove e sottoposti a cure che gli istituti penitenziari non possono garantire. Insomma, il carcere di nuovo al centro dell'attenzione per un fatto grave ma non ancora centrale nelle politiche quotidiane. Eppure bisogna far presto, anzi prestissimo.
*Parlamentare di Italia Viva