di Luigi Manconi
La Stampa, 29 giugno 2021
Va da sé: per i 52 poliziotti penitenziari raggiunti da altrettante misure cautelari vale la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva. Eppure, ribaditi anche in questa circostanza i principi del più rigoroso garantismo, è difficile ignorare quanto emerge dall'indagine della Procura di Santa Maria Capua Vetere.
È un grumo di aggressività e di sopraffazione covato nel fondo del rapporto sempre potenzialmente malato tra custodi e custoditi, che si trasforma in dispositivo di violenza e in meccanismo di disciplinamento dei corpi reclusi. Conversazioni nelle quali degli indagati parlano questo linguaggio brutale: "li abbattiamo come vitelli", "domate il bestiame", "non si è salvato nessuno". Per certi versi, è ancora più allarmante il riferimento al "sistema Poggioreale" perché rinnova la torva tradizione di un codice di punizioni illegali che dominerebbe in quel carcere.
Ai poliziotti viene contestata una lunga serie di reati e, tra essi, quelli di tortura, maltrattamenti e lesioni personali pluriaggravate.
I fatti: nei primissimi giorni di aprile del 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il manifestarsi di alcuni casi di coronavirus determinò la protesta di gran parte dei detenuti. Lunedì 6 aprile alcune centinaia di poliziotti, provenienti da diversi istituti, presidiano il carcere: una parte di loro, col volto coperto, si dispone su due file, così da formare un corridoio lungo il quale sono obbligati a passare i detenuti, sottoposti a ogni genere di percosse a mani nude, con i manganelli e con armi improprie. Molti vengono denudati, fatti inginocchiare, forzati a posizioni umilianti.
A seguito di alcuni esposti, la Procura apre un'indagine e raccoglie testimonianze circostanziate. Nel giugno del 2020, le perquisizioni e gli interrogatori. Ieri, le misure cautelari. Nell'ottobre dello scorso anno, il Ministro della Giustizia, rispondendo a una interpellanza del deputato Riccardo Magi, definiva quella del 6 aprile una "doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell'intero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dell'istituto, anche un'aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi".
C'è da rimanere senza parole. O il Ministro della Giustizia dell'epoca, Alfonso Bonafede, venne manipolato dai suoi collaboratori, a loro volta ingannati dai dirigenti dell'amministrazione penitenziaria, che fornirono quella versione dei fatti, oppure peggio mi sento. Devo dedurre che una intera catena di comando - dal responsabile politico del dicastero all'autorità regionale delle carceri - ritiene torture e sevizie come gli opportuni strumenti di "doveroso ripristino di legalità".
Se così fosse, andrebbero poste altre domande. Considerato che tra gli indagati ci sono due comandanti della penitenziaria e il provveditore delle carceri campane, è possibile che nessuno, proprio nessuno, del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dap) di Roma era stato informato preventivamente di quella azione? Non solo: c'è una preoccupante cronologia sulla quale sarebbe quanto mai opportuno che le autorità centrali, ancora il Dap e il Ministero della Giustizia, fornissero risposte adeguate: tra il luglio del 2019 e l'aprile del 2020 si sono verificati all'interno del sistema penitenziario italiano ben 9 episodi di maltrattamenti e violenze ai danni di detenuti, sui quali indagano le procure (San Gimignano, Viterbo, Monza, Torino, Palermo, Milano Opera, Melfi, Pavia e Santa Maria Capua Vetere).
Per una di queste vicende (San Gimignano), già c'è stata una condanna per torture e lesioni aggravate a carico di dieci poliziotti penitenziari. Non si vuole intendere, qui, che sia in atto una strategia di controllo violento della popolazione detenuta: ma davvero qualcuno può sostenere che si tratti di poche mele marce?