di Conchita Sannino
La Repubblica, 1 luglio 2021
Parla Salvatore, uno dei detenuti picchiati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: "Io nel video sono quello incappucciato, quello che prende botte in testa, alla schiena, alle gambe, al volto". "Arrivarono con i caschi per non farsi riconoscere. Mi colpirono in testa e sulla schiena. Nelle celle tremavano tutti".
Salvatore Q. detto Sasà, 45 anni, accusato di spaccio, è uno di quei detenuti pestati al Reparto Nilo, carcere di Santa Maria Capua Vetere, in quelle ore d'inferno del 6 aprile 2020. Accetta di parlare con Repubblica perché, dice, "per fortuna sono uscito da lì, ora sono agli arresti domiciliari, ma gli abusi devono finire, quello che è successo è stato uno schifo. E infanga le buone divise". Il suo racconto è agli atti, piccolo rivolo nella maxi indagine che conta 27 faldoni, una ventina di video (per 4 ore di maltrattamenti), 2300 pagine di ordinanza del Gip che tirano dentro 117 indagati. Proprio i mesi più cupi del primo lockdown - con la giustizia alla quasi totale paralisi nella primavera 2020 - hanno visto invece totalmente mobilitata la Procura di Santa Maria Capua Vetere guidata da Antonietta Troncone, con l'aggiunto Alessandro Milita e i pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto, impegnati in una corsa contro il tempo, e contro depistaggi e falsi, che alla fine ha mostrato lo squarcio raggelante già anticipato dalle denunce del garante Samuele Ciambriello e dell'associazione Antigone. Ieri, i primi 9 interrogatori del gip Sergio Enea: e qualche prima ammissione. "Sono stati commessi gravi errori".
Il buco nero in cui è entrato Salvatore, uno dei pochi a denunciare autonomamente i maltrattamenti, è lo stesso descritto nelle varie "sommarie informazioni" rese agli inquirenti da decine di altri reclusi picchiati a sangue. Come il povero algerino Hakimi Lamine: che a 28 anni, nonostante i suoi problemi di schizofrenia, durante la "carica" di torture, subì la frattura del naso e dopo un mese di abbandono in isolamento, la fece finita con un mix di psicofarmaci. Oppure, ancora, come Vincenzo Cacace, altro ex detenuto ormai scarcerato: è lui l'uomo che si vede, sempre nei fotogrammi dell'orrore, picchiato alla testa e al petto col manganello, nonostante sedesse su una sedia a rotelle. Ora dice: "Sono stati disumani".
Salvatore, come sta adesso?
"Quello che è successo non lo posso dimenticare. Alcuni segni li porto sulla pelle, altri stanno dentro e non me li levo più di dosso".
Quale è stato il suo referto, quali danni conserva?
"La mia schiena era diventata un bersaglio. Lividi, ematomi, versamento di liquidi portati per mesi. Ma parliamo degli effetti che si vedono. Poi ci sono quelli che non si vedono".
Si riferisce alle conseguenze psicologiche.
"Parlo del fatto che, anche quando sono andato fuori dal carcere di Santa Maria, non ho più dormito per settimane. La rabbia, la paura, lo choc, l'impotenza. Non lo so che cosa è stato. So di avere visto, in quelle ore, in carcere, molti che tremavano vicino a me, nelle celle. E forse tremavo pure io e non lo sapevo".
Che cosa successe, quindi, il pomeriggio del 6 aprile, al Reparto Nilo?
"Vennero queste guardie da fuori... Lo so, non si chiamano guardie né secondini, ma tra noi sapete c'è il linguaggio del carcere. Comunque un gruppo che si vedeva subito: intenzionato al peggio. Venuto per fare squadrismo".
Da cosa si vedeva?
"Con i caschi, i manganelli, tutti coperti per non farsi riconoscere. Già quando li vedi così capisci subito che non stanno venendo in pace".
Può fare lo sforzo di ricordare, ancora una volta?
"Ci presero con la forza. Alcuni li portarono in una sala ricreativa, a noi ci vennero a prendere nelle celle, uno per uno. Si fiondarono innanzitutto nei nostri armadietti: hanno preso i nostri rasoi, ci hanno tagliato le barbe".
Perché?
"Dicevano: volete fare i boss? Ora ve li tagliamo noi questi peli".
E poi?
"Si concentrarono su quasi tutti i piani del Reparto Nilo. Ci costringevano a uscire e ci buttavano nei corridoi. Dove c'erano decine di loro a destra e a sinistra. Noi passavamo in mezzo: arrivavano manganelli, calci, pugni. Io ho preso un sacco di cazzotti e colpi alla schiena, me l'hanno fotografata, sta agli atti...".
Impossibile reagire.
"Ma ha capito che 300 detenuti in mano loro erano niente? Io li ho guardati negli occhi. Ma ci riempivano di maleparole. Mi dicevano: "Vi uccidiamo. Non vi illudete, qui comandiamo noi"".
Lei è stato uno dei pochissimi a denunciare, perché?
"Perché io ho avuto la fortuna di uscire da lì dentro il 10 aprile, solo quattro giorni dopo che mi hanno abboffato di mazzate. Ho scritto su Facebook un post. Ho detto che era stata fatta un'infamia ai detenuti".
Lei ricorda dell'algerino Lamine?
"Lo ricordo bene, era un mio compagno di cella: stava dentro per reati scemi, un bravo guaglione"
Del tipo?
"Furto. Invece le guardie lo hanno ammazzato di botte".
Non ha mai avuto paura di denunciare.
"No, voglio raccontare. Io i miei conti con la giustizia li pago, di errori ne ho fatti. Ma non voglio essere un sacco di patate su cui si devono sfogare gli altri. La mia dignità deve restare a me".