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di Ezio Mauro


La Repubblica, 1 luglio 2021

 

Il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ma lo Stato dov'era? Mancava del tutto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, durante il pestaggio organizzato il 6 aprile dello scorso anno dagli agenti di polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti che il giorno prima avevano organizzato una protesta per chiedere mascherine e tamponi dopo la comparsa del virus Covid nel penitenziario. Mancava la fedeltà alla Costituzione, che prescrive il senso di umanità nel trattamento dei prigionieri, l'ubbidienza alle leggi che regolano i diritti di ognuno, l'osservanza dei regolamenti che governano una comunità anomala e complessa come il carcere: e infine il rispetto per la democrazia e i suoi principi, e la coscienza della civiltà in cui viviamo, che è la cornice d'obbligo dentro la quale lo Stato opera a tutela del bene comune.

Incredibilmente tutto questo è stato sospeso, come se fosse un optional e non un dovere, il sistema di garanzie che i cittadini si scambiano continuamente nella loro vita associata è saltato, le stellette sulle divise degli agenti penitenziari da simbolo di servizio dell'ordine repubblicano sono state stravolte nel lasciapassare per l'abuso, l'arbitrio e la violenza di gruppo. Ecco dov'era purtroppo lo Stato: una forza di polizia nata per tutelare l'ordinamento democratico nella libertà e nella dignità del cittadino, anche se in arresto, si trasforma in un corpo separato di picchiatori che si scatena a colpire, torturare, manganellare e umiliare i detenuti, in "un'orribile mattanza indegna di un Paese civile", come scrive il Gip ordinando un anno dopo 52 misure cautelari, con 110 indagati.

Protervia, indifferenza, imperizia o senso di onnipotenza hanno permesso al raid punitivo annunciato nelle chat degli agenti ("li abbattiamo come vitelli", "domani chiave e piccone in mano") di svolgersi sotto l'occhio delle telecamere di sorveglianza, che hanno documentato tutto. Dalle immagini, divulgate da Domani, emerge il quadro miserabile di un gruppo armato di scudi, caschi e manganelli che si scaglia contro uomini inermi, una folla di divise che circonda ogni volta un individuo isolato e lo getta a terra con calci, pugni, bastonate, ginocchiate nelle parti intime. Non solo i carcerati (sempre soli davanti all'attacco congiunto dei loro custodi) non possono in alcun modo proteggersi.

Ma il pestaggio non ha nessun fine che lo spieghi, sia pure senza poterlo giustificare: non si tratta di sedare una rivolta, o di spingere in cella detenuti renitenti che non vogliono rientrare. Nei video ci sono i poliziotti disposti su due file, come doveva succedere per lo spettacolo dei gladiatori, e i prigionieri sono costretti a passare ad uno ad uno dentro questo corridoio umano tenendo le mani dietro la testa, mentre le guardie li colpiscono, li atterrano e non smettono, ma li prendono a calci, infieriscono col manganello.

In piena Europa, nel cuore della civiltà occidentale, la civiltà italiana del 2021 espone così le immagini di uomini rannicchiati sul pavimento che si coprono la testa con le mani per ripararsi, giovani in ginocchio costretti a strisciare da una parte all'altra dello stanzone, persone con le ginocchia piegate contro il muro, il capo affondato tra le spalle sperando di evitare altri colpi, la disperazione di chi è totalmente esposto a una furia inconcepibile, fuori da tutte le regole, da ogni comprensione, da qualsiasi equilibrio.

In questo modo la violenza diventa esemplare, spiega se stessa mentre si compie esaltandosi, non cerca nemmeno una proporzione, per quanto pretestuosa, o una spiegazione. Colpisce infatti, di fronte alla brutalità del sopruso e alla disumanità della ferocia, che nessuno degli agenti abbia avuto un moto di repulsione, un soprassalto di consapevolezza, un ritorno di coscienza del limite chiedendo di smetterla, di pensare alle conseguenze, di arrestare la vigliaccheria di una forza collettiva che abusava di sé, contro uomini isolati e soli. Evidentemente bisogna pensare che la sopraffazione è stata possibile proprio perché una mentalità comune la incoraggia, la introietta e la autorizza, in una sorta di controcultura antidemocratica della forza che crede di potersi testare liberamente nello spazio non solo chiuso, ma alieno, del carcere. La forza legittima si perverte in vessazione e oltraggio, possibili perché dall'altra parte ci sono dei detenuti cioè dei devianti, cittadini di serie B, ai margini della considerazione pubblica e fuori dal perimetro dell'attenzione sociale.

Bisogna ricordare che tutto questo avviene dopo il caso Cucchi, risolto con una giustizia tardiva solo grazie all'ostinazione della sorella della vittima, perché l'assassinio aveva potuto contare per nove lunghi anni su una copertura istituzionalizzata, in un occultamento che si confermava risalendo il percorso gerarchico, via via rafforzandosi. Lo scandalo di quella vicenda non ha dunque insegnato nulla. E allora dobbiamo chiederci che idea di Stato, che concetto di democrazia trasmettiamo ai giovani agenti che entrano nelle nostre polizie: per capire dove nasce e come cresce quel malinteso spirito di Corpo capace di coalizzare pulsioni, pratiche e volontà in un accanimento contro gli esclusi e i marginali, trovando un'eco nel senso comune istintuale del Paese, e una tutela nell'impunità costante della storia italiana.

È per questo che chi ha il dovere di guida e di indirizzo, nel governo come nelle polizie e nelle carceri, nei partiti, deve sentire la gravità di quando accaduto, senza derubricarlo a incidente: lo negano la natura della vicenda, la sua portata e la qualità. Anzi, nel vuoto della politica questa autonomia separata e isolata della forza è invece un cieco e inconsapevole gesto politico, in cui si condensa e si specchia l'insofferenza diffusa per il diverso, il deviante, il portatore di colpa. Insieme con uno spirito del comando sbrigativo e meccanico, libero dai freni delle regole, e con un nuovo concetto di autorità che si crea nei fatti, modellato dalle emergenze e non dalla faticosa consuetudine democratica. Così a Santa Maria Capua Vetere si smarriscono il sentimento dello Stato e la coscienza della responsabilità generale di ognuno nei confronti della legge, degli altri e della democrazia, sottoposta a pestaggio.