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di Giordano Stabile

 

La Stampa, 8 luglio 2021

 

Dopo il ritiro delle forze statunitensi i taleban arrivano alle porte di Kabul e gli jihadisti riconquistano terreno Iran e Russia temono profughi e islamisti. I curdi si vantano di avere come unici amici le montagne, gli afghani hanno le montagne, e il tempo. Vent'anni devono sembrare un battito di ciglia nel cuore di quell'Asia che ha visto passare una dozzina di imperi. Nessuno si è fermato. Gli americani ci hanno provato, in nome della guerra al terrorismo, dopo il massacro dell'11 settembre. Ma vent'anni, in un regime democratico, senza una chiara vittoria all'orizzonte, sono troppi. Donald Trump aveva promesso con enfasi la fine della "guerra infinita". Joe Biden, senza troppa pubblicità, ha riportato a casa i suoi soldati, giusto in tempo per festeggiare il Quattro di luglio. I pessimisti ci vedono un "ritorno alla casella di partenza", con i taleban già alle porte di Kabul. Il ritiro dalla più grande base afghana, a Bagram, ha assunto i colori di una fuga, un "effetto Saigon" che rischia di diffondere il panico, con l'incubo di un nuovo regno del terrore in stile Mullah Omar. Le forze afghane hanno assunto il controllo della gigantesca città militare, due piste di atterraggio, negozi, ristoranti. Con un pizzico di ingratitudine gli ufficiali hanno raccontato che gli americani "hanno staccato la luce e se ne sono andati via di notte".

Una mossa per evitare che qualche "talpa taleban" avvertisse i terroristi dei movimenti delle truppe. Ne hanno approfittato i saccheggiatori locali. Si sono presi palloni da pallacanestro, anfibi, persino chitarre elettriche lasciate lì dai Marines, e le hanno subito messe in vendita in banchetti improvvisati. Lord George Curzon sosteneva che l'Afghanistan "è facile da invadere, difficile da governare, pericoloso da lasciare". Un secolo e mezzo dopo è ancora vero.

Va detto che i taleban hanno finora mantenuto la parola e non hanno attaccato le forze della Nato dopo gli accordi di Doha del febbraio 2020. Hanno però avvertito che non tollereranno la presenza di militari stranieri dopo settembre, data del ritiro definitivo, neppure a Kabul. Gli analisti locali sono convinti che aspetteranno almeno "sei-otto mesi" prima di assaltare la capitale. Ma hanno predisposto un piano articolato. Questa volta hanno concentrato le loro forze nel Nord, il loro punto debole del 2001, quando in due mesi vennero spazzati via dai mujaheddin tagiki del comandante Ahmed Shah Massoud e dalle forze speciali Usa. Con la conquista della frontiera con il Tajikistan, hanno costretto un'intera divisione dell'esercito, 16 mila uomini, a rifugiarsi nel Paese vicino. Il Tajikistan ha richiamato i riservisti e chiesto aiuto alla Russia, che ha già 6 mila soldati vicino alla capitale Dushanbé.

Gli Stati Uniti invece non hanno più una sola base nell'Asia centrale e neppure in Pakistan. Questo buco logistico ha indotto alcuni Paesi occidentali, come l'Australia, a chiudere i loro consolati. La stessa Washington ha ridotto il personale "non essenziale". All'ambasciata di Kabul restano comunque 1.400 cittadini americani, e 4 mila impiegati locali. È una città nella città, circondata da mura anti-esplosione alte quattro metri, con gli edifici e le antenne che svettano sulla Zona verde, a sua volta blindata e vietata al traffico ordinario. L'unica strada collegata al compound è quella che porta all'aeroporto. I circa mille militari e contractors Usa rimasti sono concentrati lì. Il governo di Kabul continua a ribadire che resisterà, nonostante i jihadisti si siano presi un quarto dei 387 distretti del Paese. L'ultimo a cadere, ieri, è stato quello di Qala-e-Naw, nella provincia di Badghis. Il ministro della Difesa Bismillah Mohammadi ha ribattuto che "le forze nazionali useranno tutta la loro potenza per difendere la nostra patria".

Ma per le strade il presidente Ashraf Ghani comincia a essere paragonato a Mohammed Najibullah, il fantoccio di Mosca, rimosso nel 1992, tre anni dopo il ritiro sovietico, e impiccato dai taleban nel 1996. Per questo Vladimir Putin da una parte si gode una rivincita, dall'altra teme il contagio jihadista nelle regioni russe a maggioranza musulmana. L'altra potenza con uno sguardo ambivalente è l'Iran. Spera di liberarsi della presenza statunitense. Ma teme per la minoranza sciita Hazara, già massacrata da Al Qaeda nel 2001, e che poi ha fornito manovalanza da mandare sul fronte siriano. Per evitare un'ondata di milioni di profughi, Teheran ha deciso di trattare con gli studenti barbuti. Una loro delegazione è arrivata a Teheran. Ma intanto i Pasdaran armano nuove milizie sciite nelle province di Herat e Farah. Sanno che la resa dei conti alla fine arriverà. Come diceva il mullah Omar agli "invasori" occidentali: "Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo".