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di Alberto Cairo*


La Repubblica, 16 settembre 2021

 

Mi è arrivato un messaggio firmato "il figlio di Mohammad Faruk". Dice che il padre è mancato, vuole che lo sappia e ringraziare per quello che abbiamo fatto per lui in tanti anni. Allega un numero di telefono e quello con cui il padre è stato registrato da noi. Faruk è un nome troppo comune, mi aiuto con la cartella clinica. Oh sì, lo ricordo. Faruk aveva problemi mentali. Era stato ufficiale nell'esercito comunista fino all'arrivo dei mujaheddin a Kabul nel 1992. Dovette fuggire e nascondersi al villaggio.

Per salvarlo, il padre fu costretto a svendere parte dei terreni, quasi regalarli, al signorotto della guerra del posto. La famiglia si impoverì, Faruk entrò in uno stato di tristezza e apatia. Come se non bastasse, saltò su una mina e perse una gamba. La tristezza divenne profonda depressione. Lo conobbi quando la moglie ce lo portò per una protesi. Rimasi colpito da quanto erano belli, eleganti, regali. Lui, docile, eseguiva quanto richiesto, lei attenta e sollecita, ignorando gli sguardi insistenti dei pazienti.

Li rivedo ancora, seduti in disparte, silenziosi e un po' alteri. Parevano divi del cinema in una pausa delle riprese di un film in costume. Ma non era un film. Poi di Faruk ricordo le improvvise apparizioni al nostro cancello, confuso e sorridente. Lasciato solo, si smarriva e, invece di tornare a casa, si presentava qui. Il figlio o la moglie lo venivano a riprendere, in grande apprensione. Una volta raccontarono che era stato picchiato per un frutto preso da una bancarella. Aiutammo la famiglia iscrivendolo nella lista degli indigenti e ricevere cibo e legna da ardere.

Il caso di Faruk era estremo, ma ansia e depressione sono comuni tra i nostri pazienti. Le vittime delle mine, per esempio. Sono per lo più uomini tra i venti e i trent'anni, l'età in cui uno si sposa, ha figli, guadagna per sé e per i suoi. All'improvviso, forse per sempre, perdono tutto, dipendono dagli altri, non vedono futuro. Qui non esistono assicurazione, mutua, assistenza sociale. Arrangiarsi.

Non sono valide ragioni di disperazione? Lo stesso per molti non disabili, donne soprattutto, spesso lasciate a provvedere da sole alla famiglia. Mi chiedo cosa debba essere vivere sempre in una situazione di violenza, povertà e ingiustizia, col terrore di ammalarsi e non poter pagare le cure. E adesso anche la paura del nuovo regime. Ammirevole come riescano a resistere, tirare avanti con dignità, sorridere. Chiamerò il figlio di Faruk. Mi fa piacere si sia ricordato di noi, anche se la ricorrenza non è di gioia. Voglio credere che Faruk sia andato a stare meglio.

 

*Direttore del programma di Riabilitazione della Croce Rossa internazionale in Afghanistan