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di Damiano Aliprandi


Il Dubbio, 16 settembre 2021

 

L'impianto accusatorio del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia è stato costruito su una serie di ipotesi per le quali non ci sono stati riscontri, basate sulle dichiarazioni "oscillanti" del pentito Giovanni Brusca, sul falso "papello" consegnato da Ciancimino jr. e su una serie di racconti suggestivi.

Dopo lunedì prossimo, 20 settembre, ci sarà la tanta attesa sentenza sul processo d'appello della presunta trattativa Stato-mafia. Gli imputati principali sono gli ex Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. I politici della Prima Repubblica, quelli che secondo la tesi giudiziaria avrebbero dato l'avvio alla trattativa per garantirsi l'incolumità dalla mafia corleonese, sono usciti fuori dal processo. Assolti.

L'ex ministro democristiano Calogero Mannino, che ha scelto il rito abbreviato, è stato assolto fino in Cassazione per non aver commesso il fatto. Mentre l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino è stato scagionato in primo grado per non aver commesso falsa testimonianza. L'unico politico imputato rimasto è quello della Seconda Repubblica. Parliamo dell'ex senatore Marcello Dell'Utri, colui che avrebbe proseguito, al posto dei Ros, la trattativa: in quel caso, la vittima sarebbe stato il governo Berlusconi.

Poi ci sono gli imputati mafiosi: Totò Riina e Bernardo Provenzano che nel frattempo sono morti, e Leoluca Bagarella. Mentre esce di scena, perché assolto in primo grado, il mafioso pentito Giovanni Brusca. La corte d'Appello ha dichiarato prescritto il reato di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Sia Brusca che Ciancimino, usciti incolumi dal processo, sono stati i testimoni chiave che hanno permesso di avviare il processo trattativa. Senza di loro, il processo non si sarebbe mai potuto imbastire.

Significativo ricordare che Ciancimino junior è stato condannato in primo grado per calunnia (poi prescritto) e, soprattutto, si è accertato che il cosiddetto "papello" con le richieste di Riina (prova decisiva che ha potuto dare l'avvio al processo) è un falso. Ma per la corte di primo grado è inconferente. Anche se è un falso, per i giudici rimangono comunque vere le richieste del "capo dei capi".

Una non prova che nel contempo è anche una prova. Di fatto, nell'immaginario collettivo e giudiziario, il papello diventa certo. Perfino Riina, intercettato nel 2013 quando era al 41 bis dove per la Prima volta ammette di aver ordinato gli attentati, si imbestialisce su questa vicenda che gli addossano. Una non prova, ricordiamo, che ha permesso l'avvio del processo. Da ricordare, infatti, che la procura di Palermo fece due tentativi non andati a segno.

Il primo è avvenuto nel 1998 attraverso l'avvio del procedimento chiamato "Sistemi Criminali" che, in sostanza, teorizza un collegamento tra tutte le stragi, da quella di Bologna fino ad arrivare a Capaci e Via D'Amelio.

Una specie di terzo livello composto da massoni, estremismo nero, imprenditori, P2 e mafie di vario genere che hanno dato l'avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel nostro Paese. Un teorema che in realtà affiorava già ai tempi di Giovanni Falcone, visto che lui stesso l'ha stigmatizzato in tutte le occasioni. In una intervista al quotidiano l'Unità, fatta pochissimi giorni prima di morire, Falcone disse testualmente: "Se per terzo livello intendiamo una sorta di organizzazione che si trova al di sopra degli organismi di vertice di Cosa Nostra, composta da politici e imprenditori, creiamo una trama per un film tipo "La Piovra". Finiremo con il creare la "Spectre di Fleming". La realtà è molto più grave, molto più complessa. È peggiore: negare l'esistenza del terzo livello significa infatti affermare che comanda Cosa Nostra e non gli uomini politici. Questo, sfido chiunque a dimostrare il contrario, mi sembra molto più grave".

Gli allora procuratori di Palermo, nel 1998, inconsapevolmente provarono, di fatto, a sfidare Falcone per dimostrare il contrario. Ma non ci riuscirono. Hanno archiviato "Sistemi Criminali" perché non hanno trovato elementi per provare il loro teorema. Ma da questa archiviazione, nasce un altro procedimento mettendo sotto indagine Riina, Vito Ciancimino e il medico Antonio Cinà. Siamo nel 2000.

L'ipotesi che guidò i pm palermitani fu che, nel 1992, Riina, con la mediazione di Vito Ciancimino e l'apporto da veicolatore del medico mafioso Antonio Cinà, avesse esercitato un ricatto allo Stato, spendendo un suo "papello" di richieste dì benefìci per Cosa nostra, dettate da Riina come contropartita della cessazione dell'attacco stragista allo Stato ad una controparte composta da appartenenti alle istituzioni pubbliche e o politiche. L'identità di tale controparte istituzionale non risultava però accertata e uno degli obiettivi che quell'indagine si prefiggeva era proprio di identificarla. Nemmeno risultava accertato quali risultati utili all'organizzazione mafiosa tale ricatto avesse conseguito a livello istituzionale. Nulla di fatto. Nel 2004 i pm di Palermo chiedono l'archiviazione a causa dell'insufficienza di prova e soprattutto dalla non poca confusione dei risultati probatori raggiunti.

Ma entra in scena Massimo Ciancimino, colui che - ricordiamo ancora una volta - poi sarà condannato per calunnia e il "papello" da lui consegnato dichiarato falso. L'inchiesta a quel punto viene riaperta nel 2008. Sarà grazie a lui che le indagini vengono estese nei confronti degli ex Ros e anche nei confronti di Mannino: eccolo qua, trovata anche la parte politica che avrebbe avviato la trattativa. Grazie a Ciancimino - in quel frangente elevato a icona antimafia -, questa volta il terzo tentativo è andato a buon segno: si è potuto imbastire l'attuale processo trattativa. Attenzione, per motivi giornalistici si parla di "trattativa", ma il reato è la "minaccia ad un corpo politico dello Stato". In sostanza le vittime sono i tre governi che si sono succeduti dal '92 fino al '94. Ma dove sarebbe condensata la presunta "minaccia"? Qual è l'oggetto materiale attraverso il quale si è potuto veicolarla? È il famigerato papello con le richieste di Riina. La "prova" l'ha consegnata Ciancimino. Quel papello che, com'è detto, risulterà un falso.

Ora però manca anche la prova dello scopo raggiunto dalla trattativa. La procura di Palermo l'ha trovata: la mancata proroga, da parte dell'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, dei 41 bis a circa 300 detenuti. Anche qui, però, qualcosa non torna. Le giudici che hanno assolto Mannino in entrambi i gradi, hanno dimostrato l'ovvio: l'allora ministro Conso, persona perbene e fine giurista, non ha subito alcuna pressione o minaccia. O meglio, una "pressione" l'ha avuta. Ma non dalla mafia o da chi avrebbe veicolato tale minaccia. La "pressione" è giunta dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 1993: il 41 bis non si tocca, però per farlo rientrare nei ranghi della nostra costituzione, non bisogna rinnovare automaticamente il 41 bis. In pratica, il rinnovo o meno, va valutato caso per caso.

Riportiamo quindi i fatti analizzando scientificamente i dati. Un metodo razionale e logico, non dietrologico: per questo meno intrigante. A differenza di cosa dice la tesi accusatoria e il sentire comune, i fatti ci dicono che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo del 41 bis, soltanto 18 appartenevano alla mafia. Non solo. A sette di loro, peraltro, nel giro di poco tempo, dopo una ulteriore valutazione, è stato nuovamente riapplicato. Ma erano boss di calibro i pochi mafiosi ai quali non è stato rinnovato il 41 bis? Assolutamente no. Dalle carte risulta che né dalla Procura di Palermo e né dalle forze dell'ordine, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro.

Risolto l'arcano, bisogna fare chiarezza su un punto importante. Si gioca molto sul fatto che lo stesso ex Ros Mario Mori ha parlato di trattativa quando fu sentito come teste al processo di Firenze di fine anni 90. Un termine sul quale tuttora si specula. Gli ex Ros mai hanno nascosto di aver intrapreso un colloquio con don Vito Ciancimino. Hanno "trattato" con lui. Ma in che termini? Tutto scritto nero su bianco fin dal 1993, quando arrivò a capo della procura di Palermo Giancarlo Caselli, dopo le dimissioni di Pietro Giammanco.

Subito gli riferirono dei colloqui intrapresi e chiesero di poter continuare. Caselli - come ha recentemente testimoniato al processo d'Appello sulla trattativa - ha acconsentito ed è andato a sentirlo al carcere di Rebibbia, assieme all'allora magistrato Ingroia, con la presenza di De Donno. Dal verbale emerge che Ciancimino ha raccontato tutto ciò che è accaduto con i Ros. Tutto. Dalla richiesta del passaporto, fino a fare anche il nome dell'intermediario: ovvero Cinà.

Caselli non ci ha visto nulla di male. Esattamente come Borsellino: quando quest'ultimo apprese dalla dottoressa Liliana Ferraro i primi tentativi di colloquio intrapreso da De Donno (il dialogo vero e proprio con la presenza di Mori, il più alto in grado, è iniziato ad agosto del '92, dopo la strage di Via D'Amelio), non fece alcuna obiezione né segno di stupore. Era, appunto, un tentativo autonomo da parte dei Ros di arrivare alla cattura dei boss. Ma in che cosa consisteva? Se Ciancimino l'avesse aiutati a risalire ai latitanti, in cambio avrebbero trattato bene la famiglia, proteggendola da eventuali ritorsioni. A quella proposta, Ciancimino si adirò perché avrebbe voluto qualcosa di più.

Grazie alla testimonianza dell'altro figlio (non Massimo, ma Roberto), si apprende che Ciancimino pensava di risolvere il suo processo (dove in seguito sarà anche condannato). Pretesa, ovviamente, assurda e inapplicabile. Cosa che, appunto, gli fece notare il figlio che è anche avvocato.

Quindi, c'è un punto fermo. I Ros, appena se ne andò via Giammanco (di cui non si fidava nemmeno Borsellino), riferirono alla procura di Palermo i contatti che ebbero con Ciancimino. Il verbale del '93 parla chiaro. Ovviamente Caselli dice che non poteva immaginarsi che quella fosse la cosiddetta trattativa che poi dopo anni sarà teorizzata dall'accusa. All'epoca, così come Ingroia che sarà uno dei titolari del processo, non era a conoscenza degli elementi che poi uscirono fuori. Ha ragione Caselli.

Il problema è che i "nuovi" elementi usciti fuori sono basati su illazioni, su ragionamenti basati su un papello inesistente, sulle testimonianze di un Brusca che con il tempo ha fatto dichiarazioni oscillanti. Basti pensare che Brusca, inizialmente, riferì di aver sentito parlare di una trattativa con Bossi, il fondatore della Lega. Poi cambia versione in corso d'opera. Addirittura sposta la data dell'inizio trattativa a cavallo tra le due stragi. Le prove dell'avvenuta trattativa, di fatto, non ci sono. Rimangono solo chiacchiere. Talmente inconsistenti che ogni tanto esce fuori qualche pentito di basso rango che dice di conoscere verità inconfessabili. Casualmente volte a corroborare la tesi vigente.

La giuria popolare sarà decisiva per la sentenza. I giudici popolari avranno una grande, enorme responsabilità nel decidere sulla sorte degli imputati del processo trattativa Stato-mafia. Saranno coscienziosi, curiosi di approfondire seriamente senza farsi fuorviare dai mass media, i giornali, i gruppi Facebook, le immaginette virali, senza farsi ammaliare da taluni magistrati onnipresenti in Tv e nei convegni? Chissà se durante il processo hanno compreso quanto sia differente la realtà dei fatti rispetto ai palcoscenici mediatici. Chissà se valuteranno bene le presunte prove. Chissà se hanno ben compreso che forse potranno ristabilire la verità distorta da questa tesi giudiziaria. Chissà se si sono resi conto che non contano le parole di qualsiasi giornalista, opinionista, santoni, improbabili pentiti, ma solo la verità documentata. Sarebbe interessante, ma ovviamente non fattibile, conoscere la storia individuale di ognuno dei giudici popolari. Capire se hanno quella coscienza critica, dovuta anche dalle avversità della vita, che permetterà loro di saper decidere ben sapendo che è in gioco la preziosa vita di una persona. La decisione finale è riservata a loro. Nel caso di parità, prevale la sentenza più favorevole agli imputati.

C'è un dato di fatto. Abbiamo diverse sentenze che non collimano con la tesi della trattativa. C'è la sentenza Mannino: in entrambi i gradi di giudizio, le giudici non si sono limitate ad assolvere l'ex democristiano, ma hanno decostruito la tesi giudiziaria in maniera capillare. C'è poi la sentenza del Borsellino Quater di secondo grado che non entra nel merito della trattativa (non è di sua competenza), ma la esclude categoricamente come movente dell'accelerazione della strage di Via D'Amelio: per la Corte nissena, la causa dell'accelerazione era quella "preventiva", ovvero togliere Borsellino di mezzo perché aveva dimostrato seria intenzione di indagare a fondo (ancora non aveva la delega) su mafia appalti, una indagine scaturita dal dossier redatto dai Ros stessi sotto la supervisione di Falcone.

D'altronde, ma questa è un'aggiunta non contemplata nella sentenza, Borsellino stesso - cinque giorni prima di morire - partecipò all'ultima riunione della procura di Palermo facendo sue le lamentele di Mori e De Donno relative a quel procedimento. Aggiungiamo, inoltre, le sentenze di Capaci, uno e due, dove escludono la trattativa per le stragi (comprese quelle continentali), ma contemplano appunto il discorso dell'esito del maxiprocesso, la dura reazione dello Stato e la questione relativa ai grandi appalti. Sull'ipotesi trattativa rimangono in piedi due sentenze di primo grado: quella di Palermo e quella recente su Matteo Messina Denaro. E quindi? In sostanza abbiamo decine di sentenze che arrivano a conclusioni diverse. Il tutto e il contrario di tutto. Allora è lecito chiedersi: se lunedì la Corte di Palermo dovesse condannare gli ex Ros Mori e De Donno, Dell'Utri compreso, come si potrà dire che giustizia è stata fatta quando chiaramente i dubbi permangono? Si può finire in prigione, quando, sulla medesima vicenda, i giudici di varie Corti arrivano a conclusioni diverse? In un Paese democratico e civile, nel dubbio, si assolve.