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di Viola Ardone


La Stampa, 26 ottobre 2021

 

La verità è che di fronte alla morte di un ragazzo cadono tutte le parole. E dove prima c'era una vita, giovane, in corsa accelerata sulla rampa di lancio del futuro, al suo posto si apre una voragine, fatta di rimpianto e di silenzio. La desolazione di un buco nero che non avrà risposte. Soprattutto se all'origine di quella mancanza, di quella crepa nel tessuto connettivo dell'esistenza, c'è un gesto volontario, come sembra sia accaduto in questo caso.

Nella notte tra domenica e lunedì, un ragazzo di diciannove anni di San Salvatore Telesino, paese in provincia di Benevento, torna a casa tardi, forse troppo tardi rispetto a quanto concordato con i genitori. Il ragazzo viene rimproverato, pare, ne nasce una discussione, poi si chiude in camera e con la pistola del padre - regolarmente detenuta - si spara alla testa. Inutile la corsa all'Ospedale di Benevento, dove le sue condizioni sono subito apparse gravissime, e il successivo trasferimento in elicottero all'Ospedale del mare di Napoli. Per il ragazzo non c'è stato niente da fare, il baratro se lo è preso.

"Muore giovane chi è caro agli dei", recitava quel famoso frammento di Menandro, ma è una bugia, e lo sappiamo bene. O quegli dei non esistono nel nostro cielo, o ci hanno mentito crudelmente. Nessuno saprà mai che cosa è successo in quei momenti: quali parole, quali pensieri, quali fantasmi abbiano mosso la mano del giovane sull'arma, in quale zona buia della coscienza è stato trascinato via, verso il territorio della disperazione.

La fascinazione dei più giovani per il gesto estremo, la ricerca del senso del limite, la sfida ad affacciarsi sull'orlo dell'abisso sono sempre stati in qualche modo parte di quel lavoro durissimo che è crescere, diventare grandi e dimostrare al mondo di avere tra le mani la chiave di avviamento del proprio destino. Probabilmente lo è ancora di più oggi, in una società che ha perso i suoi riti di passaggio e in ciascuno deve tatuarsi da solo la propria linea d'ombra sui margini del cuore. Eppure quello che dal punto di vista simbolico mi colpisce di più in questa storia di enorme dolore su cui, ripeto, nessuno può sentirsi in diritto di dire parole, se non di condoglianze, è il disagio profondo, l'inquietudine perturbante che provano spesso i ragazzi di fronte a un rimprovero, di fronte a un "no". La difficoltà a misurarsi con l'errore, con la sconfitta, con la perdita. In una società che li vuole tutti vincenti, non c'è più posto per i Franti, ma solo per i Derossi e, al limite, per qualche buon Garrone. Nel libro Cuore dei nostri giorni, abbiamo posto solo per storie di piccoli campioni, giovani promesse, belle speranze. Ma nessuno gli rivela che quelle promesse e quelle speranze si realizzano anche attraverso le sconfitte. Che la perdita fa parte in maniera consustanziale della vittoria e che la vittoria, in definitiva, non è necessariamente l'approdo di ciascuno. Lo vedo quotidianamente negli occhi dei miei alunni quindicenni, di mio figlio che ha dieci anni: essere contrariati, contraddetti, smentiti, rimproverati - a torto o a ragione - li mette a disagio, come un colpo vigliacco e inaspettato che li fa vacillare dalle fondamenta. Ogni punto di inciampo diventa un fosso, una sgridata si trasforma in una disfatta, un cattivo voto in un'offesa privata, una bocciatura in una tragedia, personale e familiare.

La strada dell'amore è spesso lastricata di controindicazioni. E così, il nostro desiderio di genitori o di educatori o di insegnanti di preservarli dal dolore rende loro difficile confrontarsi con un "no", con un divieto, con la disapprovazione. Forse, quello che oggi varrebbe la pena di insegnare ai più giovani allora non è a "fare le cose per bene". Forse dovremmo insegnare a sbagliare, a sedere nella polvere dopo una rovinosa caduta e a rimettersi in piedi, seppure laceri e sporchi di fango. Ad ammettere con serenità di aver sbagliato, di essere stati insufficienti, egoisti, ingenui, sciocchi, perché la vita è fatta anche - e per lo più - di insufficienze, egoismi, ingenuità, sciocchezze, da cui nessuno è immune. La retorica della vittoria non serve né a noi né ai nostri ragazzi. E forse l'antidoto al buio della paura di sbagliare può essere proprio nella contemplazione della bellezza dello sbaglio, nell'elogio dell'imperfezione, nella consapevolezza che il conflitto non ci azzera come essere umani, ma ci valorizza. Certamente non ci uccide.

È un problema di narrazione, anche. Una narrazione della giovinezza e dell'umanità in generale sempre più virtuosa, in cui sono da stigmatizzare e da "cancellare" le voci stonate perché dobbiamo essere tutti buoni, tutti lisci e levigati, tutti bravi, ecologici e sostenibili. L'epopea dei "cattivi maestri" si è esaurita, stemperata in un profluvio di buone intenzioni che rendono intollerabile il pensiero dell'imperfezione. Forse dovremmo ricominciare a raccontare storie di cattivi ragazzi, di uomini e donne liminari, di marginali e di confusi. Di giovani che non sempre piacciono ai loro insegnanti o ai loro genitori. E che, nonostante questo, continuano a tenere accesa la luce che li anima come una fiammella nella notte.

Il caso del ragazzo di Benevento fa ritornare di attualità il dibattito sul disagio degli adolescenti