di Iuri Maria Prado
Il Riformista, 26 ottobre 2021
Seguire i lavori parlamentari sulla riforma della giustizia significa guardare in faccia il micidiale pregiudizio che fa di quell'amministrazione un caso incomparabile: e cioè che non si tratti di un servizio pubblico, con addetti che vi si dedicano nell'interesse comune, ma di un ordinamento di potere retto da un mandarinato irresponsabile che spaccia l'interesse proprio per quello di tutti.
C'è quella realtà persistente sotto la superficie dei proclami che annunciano la svolta epocale rappresentata dalla riforma di cui si discute in questi giorni: l'ossificata convinzione che l'inefficienza della giustizia si debba curare con la manipolazione in senso riduttivo dei diritti di chi vi accede o la subisce, senza che sia neppure vagamente ipotizzato che quel mal funzionamento possa dipendere anche (e figurarsi soprattutto) da difetti riguardanti in proprio i poteri e i comportamenti dei funzionari di giustizia.
Che sia esplicita nelle requisitorie di certi magistrati televisivi, o invece implicita nell'opinione diffusa, l'idea resta che il cittadino deve smetterla di dar fastidio ai giudici con tutti quei ricorsi, con tutti quegli appelli, con tutti quegli avvocati che inondano di scartoffie i tribunali. E che, se c'è un modo per restituire efficienza al sistema, è quello: intervenire sui diritti di chi chiede e aspetta giustizia anziché sui doveri di chi è chiamato a renderla.
Ci si faccia caso: quando mai capita che nel dibattito pubblico si ponga a causa di questo o quel problema dell'amministrazione della giustizia una mancanza, una negligenza, una inettitudine del sistema corporato che governa quell'amministrazione? Non capita mai. E sempre, piuttosto, si rinvia alle responsabilità altrui, a cominciare da quella dei cittadini che hanno la pretesa di impugnare il provvedimento che li incarcera o il malvezzo di credere che la tutela dei propri diritti di proprietà, di lavoro, di famiglia non costituisca un'ipotesi rimessa al capriccio del togato in giornata buona, ma un dovere dello Stato.
La dice lunga il fatto che i due pilastri su cui si reggono i propositi di riforma della giustizia civile (è quella che meno va in prima pagina, ma è quella che più frequentemente coinvolge l'interesse concreto dei cittadini) siano costituiti dall'appalto del lavoro a una fungaia di organismi di mediazione e dal giro di vite sui termini processuali delle parti, col giudice lasciato libero di fare - o non fare - esattamente come prima. Quei due punti forti della riforma denunciano la debolezza di un legislatore che delega al governo di intervenire nel solco magari ben intenzionato, ma aberrante, di una giustizia che pretende di rimettersi in carreggiata mettendo in riga chi vi è soggetto piuttosto che le strutture che la amministrano, opportunamente supportate dall'esercito di magistrati distratto dal lavoro ordinario e accampato nei ministeri per la tutela degli interessi di categoria. C'è molto contributo del potere giudiziario, e molta cautela nell'irritarlo, in questa riforma.