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di Davide Dionisi


L'Osservatore Romano, 26 gennaio 2020

 

Senza Sbarre, il progetto di don Riccardo Agresti per il reinserimento dei detenuti. La vera vittoria non sta mai nell'annientamento di chi ha commesso un reato, ma nel suo recupero. È il presupposto da cui è partito don Riccardo Agresti, sacerdote di Andria, che insieme ad un confratello, don Vincenzo Giannelli e al magistrato della corte di appello di Bari, Giannicola Sinisi, ha dato vita a Senza Sbarre, un progetto che "nasce dalla chiamata del Signore in un territorio molto difficile", ci spiega.

"Fui colpito dalla testimonianza di una mamma che era solita partecipare ai nostri incontri in parrocchia. Veniva sempre sola con il suo bambino. Le chiesi il motivo e lei rispose che suo marito aveva un impiego a nord e lo vedeva raramente. Scoprii che la residenza del consorte era via Andria 300, ovvero l'indirizzo della Casa Circondariale di Trani", racconta don Agresti. "Capii immediatamente che avrei dovuto fare qualcosa per questa famiglia e per tutti coloro che si trovavano nella stessa situazione.

Da lì nacque la mia attività di volontariato in carcere, accompagnato da don Vincenzo, e Senza Sbarre, attraverso il quale oggi lavoriamo per il recupero delle persone e l'equilibrio sociale perduto, mediante la pratica lavorativa e l'esercizio civile e spirituale, mirando alla riconciliazione degli autori dei reati con le vittime". Fin dall'inizio fu scelta la Masseria San Vittore, nei presso di Castel del Monte, che la diocesi mise a disposizione.

"Era un casale abbandonato con 8 ettari di terreno, un po' isolato, e in pessimo stato" racconta il sacerdote. "Ma l'idea era valida e quindi valeva la pena trovare fondi per ristrutturare il plesso", prosegue. Della bontà dell'iniziativa si accorse immediatamente la Caritas, che riconobbe Senza Sbarre come esperimento pilota nazionale perché primo progetto di misura alternativa al carcere di comunità. Un'idea certamente non vietata dalla legge ma che avrebbe potuto scontrarsi con la preoccupazione dei giudici.

"Un collegamento tra persone condannate avrebbe potuto favorire la recidiva", spiega il magistrato Sinisi e aggiunge: "Senza sbarre avrebbe dovuto guadagnarsi la credibilità dei tribunali di sorveglianza, impegnando don Riccardo, quale diretto responsabile, ad essere garante". Risultato? "Oggi i detenuti in Masseria curano i campi, gli animali, producono pasta fresca e taralli, manutengono le strutture, progettano l'uso di un forno a legna per pane e focacce, trasformano i prodotti agricoli e li vendono.

Inoltre partecipano alle attività di formazione e sono pienamente inseriti nella comunità che li riconosce come persone in cammino e tutta la comunità ha intuito la portata innovativa e rivoluzionaria del progetto", rivela don Riccardo. Ma che ci fa un magistrato accanto a un sacerdote in prima linea per il recupero e il reinserimento dei detenuti? Sorride Giannicola Sinisi e racconta: "Conosco don Agresti da 30 anni. Per motivi anagrafici lo considero un fratello spirituale e quando ha deciso di cominciare questa avventura, considerato che ha la testa dura, ho deciso di non lasciarlo solo. Conoscevo bene i rischi che avrebbe corso.

Inoltre ho scelto di stargli accanto anche per convenienza. Siccome credo nel recupero del condannato, onde evitare di ritrovarmi in ulteriori processi a causa delle recidive, ho pensato bene di abbracciare subito la causa. Avrei avuto meno da fare in tribunale, ma avrei ottenuto maggiori soddisfazioni da volontario".

La costituzione di questo gruppo ha consentito di aprire nuove vie al reinserimento attivo del detenuto nel contesto lavorativo produttivo e non assistenziale. Fino ad oggi, infatti, si sono percorse tre strade: quella del pessimismo e cioè della totale segregazione in periodi di criminalità dilagante e di terrore; dell'ottimismo ipotizzando una società senza pena nella considerazione che fosse il carcere a creare recidiva e, infine, quella della ragione o ragionevolezza considerando, invece, che non il carcere ma l'uso che se ne fa, potesse a socializzare i reclusi.

L'iniziativa di don Riccardo sembra percorrere questa terza via. Ma perché destinarli al lavoro della terra? "Perché quelle mani che avevano commesso crimini, avrebbero dovuto trasformarsi in bene prezioso per la comunità", risponde. "Per questo abbiamo chiamato la nostra cooperativa A Mano libera. Tra loro c'è chi in passato ha coltivato marijuana. Oggi è il responsabile dell'area ortaggi ed è uno dei punti di riferimento della comunità. Non dimentichiamo poi che mi chiamo don Riccardo Agresti, nomen omen".

L'esperienza della Masseria evidenzia che esiste la possibilità di adottare provvedimenti alternativi alla pena detentiva di tipo tradizionale ed altri provvedimenti diretti in primo luogo a pervenire ad una giustizia penale più progredita e civile, sul modello di altri paesi, e al tempo stesso alla soluzione del problema del sovraffollamento delle carceri.

Anche perché in una situazione pressoché generale di ozio forzato dei reclusi, che ne fomenta abiezioni ed instabilità gravi, un progetto educativo sperimentale, che prevede il loro recupero e il loro reinserimento attraverso forme di socializzazione e l'apprendimento di una professione artigianale, non può che alleggerire il carico delle istituzioni.

"È necessaria una riconsiderazione globale della concezione e dei meccanismi del sistema punitivo del nostro Paese per aprire la strada dell'effettiva attuazione del dettato costituzionale sul reinserimento del condannato nella vita sociale", rileva il magistrato che, accanto alla scrittrice Angela Covelli, ha avviato una collana editoriale che racconta le vite dei protagonisti che lavorano nella Masseria.

"La prima è dedicata ad un ragazzo senegalese che si è convertito ed è stato battezzato in carcere. Si chiama Matteo e oggi è un pilastro del nostro gruppo", spiega Covelli. Ma stare al fianco di un magistrato durante la giornata non potrebbe creare qualche disagio agli ospiti? "Niente affatto", chiarisce prontamente Sinisi.

"Loro sono molto contenti e mi trattano con grande rispetto. Li ho persino invitati a palazzo di giustizia alla presentazione del mio libro. All'inizio erano spaesati perché hanno visto quelle aule solo in occasione dei loro processi, poi hanno trovato la giusta serenità. Anche perché, per la prima volta, sono usciti dal palazzo senza manette.

Lo stesso disagio iniziale è stato manifestato anche dai miei colleghi, ma l'obiettivo era proprio quello di rompere ogni barriera e pregiudizio. Non stavo accompagnando reati, ma persone. Tra l'altro - conclude sorridendo Sinisi - uno di loro è stato proprio condannato da me".