sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Lugi Manconi


La Repubblica, 10 marzo 2020

 

Le norme di sicurezza per arginare il coronavirus vengono annullate dagli spazi ristretti delle carceri, che somigliano a lazzaretti. Detenuti sui tetti del carcere milanese di San Vittore e incendi in alcuni bracci, mentre in altri istituti continuano le proteste.

Da quarant'anni non accadeva nulla del genere all'interno del sistema penitenziario italiano. La popolazione detenuta a partire dalla metà degli anni 80 e dalla riforma introdotta dalla legge Gozzini, ha trovato mezzi e canali diversi per far sentire la propria voce e affermare i propri diritti. La gran parte dei reclusi ha faticosamente appreso come non sia mai vero che "non c'è nulla da perdere"; e che il carcere, un carcere così orribile e disumano, può offrire un'opportunità, propone una via d'uscita, indicare un'alternativa, per quanto flebile.

Perché, allora, da un giorno all'altro si ripropone lo scenario di quasi mezzo secolo fa? La ragione può essere colta, forse, mettendo insieme gli strumenti di analisi che abbiamo imparato a manovrare proprio in questi giorni. Prendiamo quel termine inglese droplet, ovvero gocciolina, utilizzato per indicare la giusta distanza da rispettare, "almeno un metro", nelle relazioni tra le persone. Ciò al fine di evitare che elementi della saliva dispersi nell'aria raggiungano altri.

Ma se proviamo ad applicare questa unità di misura all'interno di spazi ristretti e disciplinati, quali quelli di un carcere, la verità ci aggredisce brutalmente. Ecco, entriamo con quel metro in uno dei 198 istituti penitenziari italiani, percorriamo uno dei corridoi dei diversi bracci, raggi e sezioni ed entriamo in una cella.

Nel 50% dei casi, si tratta di locali chiusi da sbarre per venti ore al giorno, con possibilità di apertura per due ore al mattino e due al pomeriggio. In queste celle è possibile trovare due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto e più detenuti. Ne consegue che avremmo molta difficoltà anche solo ad aprire le braccia, tenendo quel metro ai due capi, per verificare se il provvedimento del governo venga rispettato.

E la "gocciolina"? Il fatto è che la convivenza in quella cella ricorda meno una comunità familiare o gli avventori di un bar e assai più evoca l'immagine di un gruppo marmoreo come quello di Laocoonte e i suoi figli: a tal punto i corpi reclusi appaiono aderire e compenetrarsi l'uno all'altro, allacciandosi in combinazioni imprevedibili e informi.

Almeno nel 40% delle celle la convivenza è questo: un agglomerato di corpi di uomini adulti che si scambiano odori e sudori, eiezioni e umori, efflussi, secrezioni e liquidi. In una promiscuità coatta e in ambienti dove, come per volontà di un architetto di interni impazzito, la doccia e il water, il lavandino e la dispensa si sovrappongono e si mescolano per rispondere ai bisogni fisiologici primari: orinare, mangiare, lavare, defecare, in pochi metri quadrati.

Riusciamo a immaginare quale effetto la minaccia del virus può avere sullo stato mentale ed emotivo di persone recluse in un simile sistema patogeno, che produce e riproduce malattia, depressione e autolesionismo?

Bastino pochi dati: 53 i detenuti suicidatisi nel 2019 e circa 100 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita nel corso degli ultimi dieci anni. Si pensi che, secondo i dati dell'ultimo rapporto dell'Associazione Antigone, oggi la popolazione reclusa (61.230 al 29 febbraio 2020) registra una percentuale di sovraffollamento del 119% rispetto alla capienza regolamentare. (Della quale, peraltro, molto si sospetta in quanto ottenuta, probabilmente, calcolando come posti letto quelli che sono, in realtà, spazi comuni).

Dunque il carcere è il perimetro degli spazi angusti, del respiro che manca, del fiato che si fa corto, cortissimo, dei letti a castello, dove chi dorme sulla branda superiore sbatte il capo contro il soffitto. È il luogo dell'asfissia, dell'aria viziata, della tosse, dell'affanno, della saliva e del catarro, degli odori acidi che si fanno spessi e grevi.

Chi si trova recluso e apprende, attraverso la tv, i dati della crescita del contagio e dei decessi, vive la terribile sensazione di essere con le spalle al muro, assediato in un lazzaretto, che gli amputa le poche risorse e le scarse facoltà rimastegli.

Un isolamento sensoriale che si somma a quello fisico e materiale proprio dell'architettura carceraria e ne esaspera il processo di deresponsabilizzazione, sottraendo totalmente la gestione della profilassi ai suoi destinatari: i detenuti stessi. Si deve ricordare, tuttavia, che il degrado della condizione carceraria, specie negli ultimi due anni, non è questione che riguarda i soli carcerati.

La salute di questi è un bene prezioso per noi tutti; ed è la sola garanzia che nei luoghi più chiusi e oscuri non si formino focolai dalle conseguenze inimmaginabili. Non c'è bisogno di ricorrere a Dostoevskij per riconoscere che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni.

Se i diritti della persona non vengono tutelati in qualunque segmento dell'organizzazione sociale ne patiremo tutti, e se consentiremo che in un qualunque ambito della vita collettiva si addensi l'epidemia e l'abbrutimento, la vulnerabilità e la decadenza del corpo e dell'anima - in una parola, la perdita della dignità umana - nessuno potrà pensare di salvarsi dall'infezione e dall'onore.