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di Antonio Mattone

 

Il Mattino, 16 aprile 2020

 

Se garantire il distanziamento sociale resta ad oggi l'unica arma efficace per combattere il coronavirus, nelle carceri italiane siamo di fronte a una vera e propria resa, vista l'esiguità degli effetti delle misure messe in campo dal governo per ridurre la pressione negli istituti sovraffollati. L'articolo 123 del decreto Cura Italia, prevede la possibilità che la pena detentiva non superiore a 18 mesi possa essere eseguita presso il proprio domicilio, salvo eccezioni per alcune categorie di reati o di condannati.

La mancanza dei braccialetti elettronici che devono essere applicati a coloro che devono scontare un residuo di pena superiore a sei mesi, fa sì che dopo aver imbastito migliaia di richieste accompagnate da accurate relazioni degli educatori, la stragrande maggioranza dei detenuti che potrebbe beneficiare di questa norma sia rimasta in carcere. Con l'accordo siglato tra il ministro della Giustizia, il Viminale e il commissario straordinario all'emergenza Domenico Arcuri, è stata programmata l'installazione di 4.700 nuovi dispositivi entro la fine di maggio. In questo modo viene vanificata la prerogativa d'urgenza che il decreto-legge voleva attuare. Intoppi nelle cancellerie e carichi di arretrati della magistratura di sorveglianza, hanno fatto accumulare ulteriori ritardi.

Sta di fatto che nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano, a fronte di duecentodieci richieste di detenzione domiciliare sulla base del decreto Cura Italia, sono usciti meno di quindici carcerati.

A questo provvedimento si aggiunge la direttiva emanata dal Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria che ha chiesto agli istituti di segnalare all'autorità giudiziaria i casi di ultrasettantenni o portatori di gravi patologie per il differimento della pena, indipendentemente dal tipo di reato e dagli anni che restano da scontare. Istanze che non trovano corrispondenza in nessuna norma e che quindi il più delle volte sono dichiarate inammissibili dalla magistratura. La montagna ha partorito il topolino.

L'impressione è che si passi di mano in mano il cerino acceso, con il rischio che la polveriera possa esplodere da un momento all'altro.

Dobbiamo riscontrare che, ogni qual volta debbano essere presi in considerazione provvedimenti che producono benefici su chi vive all'interno delle carceri, si pensa più a non perdere il consenso elettorale che alla salute dei detenuti, degli operatori penitenziari e alla fine anche al bene dei cittadini, perché se un istituto di pena diventa un focolaio del contagio, le conseguenze si propagano inevitabilmente su tutta la popolazione. Ma questa è una storia vecchia, lo abbiamo visto anche con la mancata riforma penitenziaria scaturita dagli Stati generali dell'esecuzione penale che poteva essere approvata nella scorsa legislatura da chi adesso accusa il ministro Bonafede di averla affossata.

In una situazione di emergenza, si risponde con procedure e misure d'emergenza. Come si fa oggi a dormire sonni tranquilli quando in una cella convivono più di dieci persone? In un ambiente chiuso e nello stesso tempo frequentato da numerosi operatori e agenti penitenziari, è più probabile contrarre il virus, con il rischio di mettere a repentaglio la vita di persone fragili come i detenuti anziani e malati. E poi non dimentichiamo che scontare una condanna nel proprio domicilio non vuol dire aver condonata la propria pena, ma pagare il debito con la giustizia in una delle modalità previste dalla nostra Costituzione. Certezza della pena, non vuol dire certezza della galera.

È stato Papa Francesco a mettere l'umanità di fronte alla drammatica situazione del mondo delle carceri durante la via Crucis. Nel silenzio di una piazza San Pietro deserta, le testimonianze di detenuti, operatori penitenziari, vittime e figli di carnefici, hanno fatto emergere tutto il dolore causato dalla violenza degli uomini. Il male non è stato nascosto o attenuato ma è stato raccontato in tutte le sue sfaccettature. Quello di cui si è stati artefici, quello subito da innocenti o perché è stata troncata la vita di propri cari. E poi lo stigma di essere figli di mafiosi e la fatica di misurarsi ogni giorno con un mestiere usurante.

Il carcere non può essere una risposta al male solo comprimendo nelle celle chi ha commesso crimini. Se oggi sono diminuiti di poche migliaia i reclusi nei penitenziari italiani questo è dipeso da misure ordinarie, dalla tenacia di magistrati di sorveglianza coraggiosi e dal fatto che con il lockdown si commettono meno reati.

Non sappiamo come ha risposto il Guardasigilli alle spiegazioni chieste dalla Cedu sulla condizione dei detenuti e sul rischio di contrarre il Covid-19. Ci auguriamo che non sia ancora una volta l'Europa a condannare l'Italia per comportamenti disumani e degradanti: un nuovo schiaffo ad un Paese che, non dimentichiamolo, è stata la culla del diritto.