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di Luigi Ferrarella

 

Corriere della Sera, 3 maggio 2020

 

Quindi la lezione è che un ministro della Giustizia conferma fiducia al capo delle carceri (riconoscendosi nel suo operato) se 13 detenuti muoiono in rivolte stile anni 70. O se teorizza che l'ereditato sovraffollamento (all'epoca 12.000 reclusi in più) è illusione ottico-aritmetica, ricalcolando la quale ci sarebbe anzi ancora posto. O se a Strasburgo prima si scrive di 6.000 braccialetti disponibili, e poi però che non va interpretato alla lettera.

Ma non più se pm/giornali/tv autoproclamati antimafia scatenano fuorvianti polemiche, e ottengono controriforme à la carte, quando giudici di sorveglianza applicano la legge nel non far morire in cella detenuti (pure boss) bisognosi di indifferibili cure non assicurate da quel Dap che sbaglia pure la mail del tribunale.

Allora sì, ecco le dimissioni "spontanee" di uno dei meno difendibili direttori del Dap, voluto nel 2018 da Bonafede che ora fischietta come se non stesse "scaricando" il più coerente esecutore della propria filosofia carcerocentrica. Non delira dunque chi, come Salvini, ironizza che dovrebbe dimettersi pure Bonafede. Peccato che l'ultimo a poterlo dire sia proprio Salvini.

Il quale, quando governava con Bonafede nel Conte I, inneggiava a questa muscolare politica penitenziaria, fino alla gara tra i due ministri a chi fosse più arcigno ai fianchi dell'estradato Cesare Battisti, sulle note del filmino Facebook di Bonafede prodotto dall'amministrazione penitenziaria. Cambiare il capo delle carceri è solo un diversivo se non cambia l'idea di cosa devono essere.