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di Giovanni Bianconi


Corriere della Sera, 9 maggio 2020

 

La presidente Fiorillo: scelte sempre motivate. Dietro ogni provvedimento c'è un lungo e difficile lavoro.

 

Dottoressa Antonietta Fiorillo, presidente del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, la vostra categoria è sotto attacco?

"Sì, ma con un termine in disuso direi incompresa. È come se la nostra funzione non fosse talvolta riconosciuta, anche all'interno della magistratura e dai rappresentanti delle istituzioni".

 

Vi sentite delegittimati?

"Per forza. Se le nostre decisioni vengono utilizzate nella polemica politica, noi passiamo per quelli che scarcerano senza motivo, quando ovviamente non è così. Perché se scarceriamo ci sono dei motivi; e perché molte volte invece siamo noi a rimandare in carcere anche quei condannati lasciati agli arresti domiciliari dai giudici di merito quando commettono un reato nel corso dell'esecuzione pena in misura alternativa".

 

Che cosa la disturba di più delle ultime polemiche?

"Il fatto che non venga considerato il lungo e difficile lavoro che c'è dietro ogni nostro provvedimento. È ingiusto far passare l'idea che non teniamo conto dei problemi della sicurezza; certo non ci facciamo condizionare dall'opinione pubblica, ma acquisiamo ogni informazione utile per evitare rischi alla collettività".

 

Ora dovete chiedere i pareri alle Procure scarcerare o concedere permessi ai detenuti per mafia e droga. Vi disturba?

"Ma no! Semmai in quel decreto non c'è una parola per i "41bis"' che non scontano una pena definitiva, e mi pare una discrasia che non capisco. In generale ogni informazione utile è per noi un elemento in più per prendere la decisione giusta. Anche prima era prevista la possibilità di chiederle, ora è diventato un obbligo così il governo ha voluto dare la percezione di una stretta, ma il problema del parere delle Procure è un altro".

 

Quale?

"Più che il parere a noi interessano i dati di fatto sui quali è fondato, ma se come spesso accade ci mandano l'elenco delle sentenze di condanna o dei procedimenti in corso, non ce ne facciamo niente: quegli atti li conosciamo già, sono il punto di partenza del nostro lavoro. A noi servono informazioni sull'attualità dei collegamenti con l'associazione mafiosa, i nuovi contesti criminali".

 

Però alcuni suoi colleghi hanno scarcerato capimafia sostenendo che l'età avanzata e la lunga detenzione ne riducono la pericolosità...

"Non voglio parlare dei singoli casi, ma in generale dico che per i capimafia l'età avanzata non significa niente. Errori e valutazioni sbagliate sono sempre possibili, anche nei nostri provvedimenti, ma non si può generalizzare. Io credo che il nostro lavoro richieda un costante contatto con il carcere e i detenuti; bisogna guardarli in faccia, è necessario il dialogo e il confronto, non possiamo decidere solo sulle carte".

 

Pare che in futuro dovrete rivalutare periodicamente le vostre decisioni sulle scarcerazioni connesse al Covid.

"Vedremo che cosa scriveranno, ma noi facciamo già verifiche periodiche a un mese, due mesi, sei mesi o di più, a seconda dei casi. Certo che se ci chiedono di rivedere le decisioni ogni quindici giorni si porrà anche un problema di organici per smaltire la mole di lavoro in più".

 

Insomma, non siete i giudici "buonisti" a cui piace liberare i detenuti?

"Non credo che i miei detenuti abbiamo mai avuto la sensazione che lavorassi alla Caritas! Battute a parte, questa considerazione è solo frutto di pre-giudizi che andrebbero abbandonati una volta per tutte. Il nostro lavoro dev'essere giudicato verificando la capacità, la professionalità e il buon senso con cui viene svolto; e lo dico per tutta la magistratura, non solo quella di sorveglianza".

 

Come si fa a scegliere tra la salute del detenuto e la sicurezza della collettività?

"La premessa è che secondo la nostra Costituzione la salute del cittadino, anche in condizioni di detenzione, viene prima di ogni altra cosa, dopodiché è un problema di bilanciamento da raggiungere su ogni singola situazione. Ma vorrei ricordare che il differimento della pena per gravi motivi di salute è previsto dal codice penale del 1930; e noi siamo giudici, non possiamo interpretare le norme a seconda dell'emotività dettata dal momento. Se poi quelle norme non sono più considerate consone al sentire comune si possono cambiare, ma compito della politica, non nostro".