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di Lorenzo Cremonesi

 

Corriere della Sera, 23 gennaio 2021

 

La regione settentrionale del Tigray è devastata dagli scontri: una enorme massa di persone tenta di raggiungere il Sudan. Il presidente Ahmed Abiy, Nobel per la pace nel 2019, nega e ha chiuso l'area. Ma che cosa c'è alle radici del conflitto? No ai giornalisti, chiuse le strade, tagliati i collegamenti aerei e qualsiasi tipo di comunicazione telefonica o Internet. In sostanza: censura totale, o meglio, boicottaggio dell'informazione indipendente.

A detta del premier etiope, Ahmed Abiy, premio Nobel per la pace nel 2019, le notizie su cosa stia accadendo dall'inizio della guerra il 4 novembre nella provincia settentrionale del Tigray dovrebbero arrivare esclusivamente da lui o dagli scarni bollettini dei suoi portavoce militari. Nonostante i profughi scappati in Sudan negli ultimi due mesi siano ormai oltre 60.000 e portino con loro racconti di massacri e orrore generalizzati. Secondo l'Onu arriveranno presto a oltre 100.000. Gli sfollati interni al Tigray superano i 220.000. Si parla di oltre 2,5 milioni di persone investite dalla crisi. Un numero enorme, tenendo conto che i tigrini non arrivano ai 6 milioni in tutto. Sono cifre approssimative, probabilmente per difetto.

L'Onu e le agenzie umanitarie internazionali non hanno libero accesso. I rari reporter che hanno violato la censura sono stati messi a tacere. Un paio di inviati della Reuters (meno facilmente sopprimibili grazie al loro impiego con un'agenzia internazionale) sono comunque finiti in carcere perché erano riusciti in modo rocambolesco a contattare alcuni medici di Macallè, il capoluogo della regione contesa, che parlavano di "scontri continui", "ospedali in ginocchio incapaci di curare le vittime civili", disordini attorno alla città e addirittura "genocidi etnici". Risultato: secondo Abiy dovremmo accontentarci delle sue dichiarazioni di "vittoria", come quella del 28 novembre, quando annunciò gongolante che le sue truppe erano entrate nella roccaforte tigrina "senza attaccare i civili, con pochissimi danni" e soprattutto che la zona stava "tornando alla normalità".

I suoi generali hanno poi continuato a parlare di "cattura sistematica" o "eliminazione" dei dirigenti del Fronte popolare per la liberazione del Tigray (meglio noto con l'acronimo inglese di Tplf). Insomma: un successo pieno, capace di garantire finalmente l'unità e la pacificazione del Paese contro i "terroristi aiutati dall'estero" e la guerriglia tribale.

Tanto lascia intravvedere una realtà assolutamente diversa. A partire da un comunicato diffuso dallo stesso governo di Addis Abeba a metà dicembre, che offriva una cifra pari a circa 220.000 euro a chiunque fornisse indicazioni che potessero aiutare a catturare i capi del Tplf. Un'evidente contraddizione, dopo aver sbandierato di essere riusciti a sconfiggerli. È la prova evidente che la guerriglia continua, specie sulle montagne e nelle zone rurali, come del resto avevano previsto sin da subito diversi osservatori ed esperti internazionali del Corno d'Africa. Sebbene la popolazione del Tigray non conti più del 6 per cento dei circa 110 milioni di etiopi, le sue milizie rappresentano ormai da decenni la forza militare singolarmente più importante del Paese. Batterla non sarà affatto semplice per l'esercito federale e comunque necessiterà parecchio tempo.

Ma, al momento, a smentire Abiy sono soprattutto le testimonianze dei civili del Tigray in fuga verso i campi dall'Unhcr (l'organizzazione Onu per i profughi) in Sudan. "Non tornerò a casa mia. Prima occorre che Abiy venga scacciato. I suoi soldati ci uccidono, ci perseguitano. Al momento dell'aggressione dell'esercito ero con mio figlio Sami di 11 anni.

Il resto della famiglia è stato massacrato. Gli hanno sparato due proiettili a bruciapelo. Era coperto di sangue, ma respirava ancora. Volevo portarlo da un medico. I soldati hanno detto che doveva morire, lo hanno lasciato a terra e sono stato costretto ad andarmene", racconta tra i tanti Fish Gibreselaissie, un meccanico originario della cittadina di Adebay, che, dopo settimane di cammino, nutrendosi di bacche, dormendo al freddo, sfuggendo a milizie e gruppi di banditi, è riuscito a raggiungere il campo profughi di Um Rakouba. La sua voce è rilanciata sui comunicati ufficiali dell'Unhcr.

In Sudan arrivano in prevalenza i giovani più forti. I deboli muoiono per la strada. L'età del 30 per cento dei profughi è meno di 18 anni. Gli ultrasessantenni sono meno del 5%. Tanti denunciano la "pulizia etnica", con toni che ricordano da vicino i crimini nella ex Jugoslavia. Non a caso si parla adesso di "balcanizzazione" del conflitto, che rischia di destabilizzare gravemente i già precari equilibri del Corno d'Africa. Questa guerra s'innesta su tensioni precedenti, che come magma sotto la superficie possono riesplodere da un momento all'altro a complicare il quadro.

Lo prova la testimonianza di Teum Haile Selassie raccolta nel campo di Hamdayet, ancora in Sudan. Questi è un medico con vent'anni di professione che in ottobre aveva lasciato Addis Abeba per aprire una clinica privata a Mai-Kadra, non distante da Macallè. "Sono fuggito senza portare via nulla. Ho visto che i tigrini assassinavano le altre etnie. E sulla strada i militari eritrei uccidevano i profughi eritrei", dice. Sono parole che aiutano a ricostruire la storia complessa di questa crisi e provano il pieno coinvolgimento del dittatore eritreo Isaias Afwerki.

Le forze del Tigray sono state infatti centrali nella sconfitta del regime marxista di Mengistu Haile Mariam nel 1991. Da allora hanno dominato l'Etiopia e condotto una guerra di logoramento con l'Asmara. La nomina nel 2018 di Abyi ha innescato un cambiamento epocale. Questi proviene dalla maggioranza Oromo, la più importante tra l'ottantina di etnie etiopi, e sin dall'inizio ha puntato a ricomporre l'unità nazionale marginalizzando il Tigray e concludendo la pace con l'Eritrea. Oggi la situazione si è dunque capovolta: Addis Abeba e Asmara cooperano per battere il Tplf e oltretutto Afweki ne approfitta per inviare le sue truppe per perseguitare i circa 90.000 oppositori eritrei fuggiti nel Tigray. Ai massacri inter-etiopi si aggiungono così quelli tra eritrei. La promessa della "guerra breve" non sarà mantenuta.