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di Giuseppe Pignatone


La Repubblica, 23 gennaio 2021

 

"I pm hanno troppi poteri!" si sente continuamente ripetere da quanti ritengono che questo sia uno dei mali da affrontare per risolvere la crisi della Giustizia. Un esempio viene indicato nella scelta delle priorità nella trattazione dei procedimenti, ormai inevitabile per l'oggettiva impossibilità di definirli tutti tempestivamente. Né il Parlamento può dettare criteri che non siano troppo generici e inidonei a cogliere le tante diverse realtà del nostro Paese.

Di fronte a questi dati di fatto è inutile gridare allo scandalo e puntare il dito contro i pm che "scelgono chi processare e chi no". Si tratta, piuttosto, di elaborare i criteri di priorità in modo razionale e trasparente con il contributo - come già avviene in molti casi - di tutti i magistrati della Procura, ma anche degli altri uffici del Distretto e dei Consigli dell'Ordine degli avvocati. Con la consapevolezza, però, che alla fine resterà necessariamente in capo al procuratore, e poi al singolo sostituto, un margine di discrezionalità che non è sinonimo di arbitrio, ma valutazione responsabile delle questioni in gioco e delle risorse disponibili.

L'allarme periodicamente lanciato sui "poteri eccessivi" dei pm ha tuttavia una portata ben più ampia, come si comprende dai messaggi veicolati dai media: "Tizio intercettato per mesi dalla Procura", "venti persone arrestate su ordine del pm", "la Procura rinvia a giudizio i funzionari corrotti". Affermazioni ricorrenti ma del tutto erronee. Il pm, infatti, non può disporre intercettazioni, arresti e rinvii a giudizio né, tanto meno, emettere sentenze; può solo formulare richieste al giudice. Gli operatori del diritto lo sanno benissimo e allora, se invitati ad argomentare, il tema cambia, diventa quello di un'asserita "sudditanza psicologica del giudice nei confronti del pm".

Una simile generalizzazione (ciascun giudice sarebbe succube di ogni pm?) mi sembra inaccettabile già sul piano logico e non corrisponde, credo, all'esperienza dei palazzi di giustizia che vede ogni giorno, come è ovvio, il rigetto di parte delle richieste della Procura. Quando poi il giudice accoglie una richiesta cautelare o di rinvio a giudizio, la sua decisione è sottoposta a più di una verifica (tribunale del Riesame e Cassazione in un caso, tre gradi di giudizio nell'altro), per cui è arduo pensare a un potere di condizionamento del pm così esteso, anzi totalizzante. La semplificazione iniziale, frutto spesso di una forzatura voluta, che ignora la complessità della realtà della giurisdizione, ci porta tuttavia a riflettere su un tema più ampio, che riguarda l'intera magistratura, requirente e giudicante.

È facile notare come nei casi che suscitano maggiore interesse mediatico si registrano le pressioni originate dalle aspettative dell'opinione pubblica prevalentemente orientate, da un certo periodo di tempo, nel senso di una maggiore richiesta di sicurezza e, quindi, a favore delle tesi accusatorie. Queste aspettative sono spesso alimentate - in un senso o nell'altro - dalle forze politiche e dagli organi di informazione, ciascuno secondo i convincimenti e gli interessi che rappresenta (come è naturale in un sistema democratico); e che poi sono pronti a utilizzare l'impatto mediatico delle inchieste, come vediamo ancora una volta in questi giorni.

Convincimenti e interessi che possono quindi coincidere con quelli di un ufficio di procura o di singoli magistrati, ma ben difficilmente da questi dipendere. A queste pressioni, come a ogni altra che possa investire chi esercita il difficile compito di amministrare la giustizia, il giudice è tenuto a resistere, forte della previsione costituzionale secondo cui egli è soggetto soltanto alla legge. Egli, come ha detto di recente il presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli, "ha il dovere di distaccarsi dalle sue posizioni politiche, non può decidere in base a simpatie e antipatie"; e, vorrei aggiungere, non deve indulgere a giudizi morali che non gli competono.

Gli stessi doveri sussistono, mi pare superfluo dirlo, anche per il pubblico ministero. Nella consapevolezza, per citare Calamandrei, "di sentirsi accusare, quando non si è disposti a servire una fazione, di essere al servizio di quella contraria". In sostanza, queste polemiche sono apparentemente centrate sui poteri del pm ma, in realtà, vogliono colpire, molto spesso, l'azione della magistratura tutta.

Naturalmente esse sono più violente in tema di mafia e corruzione, ovvero in quei settori in cui maggiori sono gli interessi in gioco e in cui la debolezza della politica e la complessità delle società moderne hanno spesso investito la magistratura penale di compiti che non le sono propri e per la cui soluzione non ha gli strumenti adeguati, ma che la espongono ad accuse laceranti di "immobilismo" o, all'opposto, di "invasione di campo".

Ma proprio per colpire questi reati, evidentemente ritenuti di particolare gravità, il Parlamento da molti anni a questa parte ha emanato (in tema di intercettazioni, misure cautelari, entità delle pene, previsione di nuovi reati) norme estremamente rigorose. Sono proprio queste norme che pm e giudici devono applicare, con la garanzia fondamentale per il cittadino della pluralità dei gradi di giudizio, cui corrisponde il prezzo inevitabile della lunghezza dei procedimenti e della possibile contraddittorietà delle decisioni. Un prezzo che si può e si deve ridurre, ma che non si può eliminare se non rinunziando, come pure avviene in altri sistemi democratici, a quella garanzia.