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di Piero Sansonetti


Il Riformista, 1 maggio 2021

 

Ieri è stato un grande giorno di unità nazionale. Altro che 25 aprile. A mia memoria non è mai esistita tanta compattezza nell'opinione pubblica e nell'establishment. I partiti hanno parlato all'unisono. Anche i giornali. Hanno esultato per l'operazione della polizia francese che su richiesta dell'Italia, anzi - credo - di Draghi, ha incarcerato sette signori, tutti intorno ai settant'anni, alcuni molto malati, che vivevano liberi a Parigi da svariati decenni, e che sono accusati di delitti gravi, avvenuti trent'anni fa - i più recenti - o quaranta o cinquanta. Quando erano ragazzi.

Uno di loro, il più anziano e il più noto, Giorgio Pietrostefani, 78 anni, ex numero 2 di Lotta Continua nei primi anni Settanta, è anche, con qualche probabilità, innocente. Lui ha sempre negato la responsabilità nell'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto il 17 maggio del 1972. È questo il delitto per il quale è stato condannato. Al processo è emerso un solo elemento di accusa: la chiamata di correo di un altro militante di Lotta Continua, Leonardo Marino, che ha accusato se stesso di aver partecipato all'uccisione di Calabresi, guidando l'auto, e ha sostenuto di essere stato incaricato di eseguire l'omicidio, insieme ad un altro militante di Lotta Continua (Ovidio Bompressi) da Adriano Sofri, leader assoluto del gruppo politico, e da Giorgio Pietrostefani. Marino è stato premiato in modo consistente per questo atto di accusa: ha avuto un salvacondotto, lieve pena, poi sconto di pena, prescrizione, nessun giorno di prigione, ottenimento della piena libertà.

Ai processi contro Sofri, Pietrostefani e Bompressi sono emersi molti elementi che contrastavano con la versione di Marino, ma alcune Corti li hanno considerati insufficienti. Alcune corti: non tutte. I processi a Sofri e Pietrostefani e Bompressi hanno avuto sorti alterne: assoluzioni, condanne, rinvii. Io penso sempre che se fosse applicato davvero quel principio stabilito dall'articolo 533 del codice di procedura penale ("Il giudice pronuncia la sentenza di condanna se l'imputato appare colpevole oltre ogni ragionevole dubbio...") le sentenze di assoluzione sarebbero molte di più di quelle che nella realtà sono. Si può dire che sia stato superato ogni ragionevole dubbio in presenza di sentenze di assoluzione pronunciate da un'altra Corte (come è successo nel caso Sofri)? A me pare di no. Io credo che una assoluzione valga come dubbio sulla colpevolezza, non vi pare? In verità, il principio del "ragionevole dubbio", che fa parte del diritto occidentale da qualche secolo, è stato introdotto nel Codice italiano solo qualche anno fa, nel 2006, dopo la sentenza contro Sofri e Pietrostefani, e comunque resta amplissimamente inapplicato.

Tutto questo non ha minimamente scalfito la compattezza del paese. Né la compattezza è stata scalfita dal fatto che ci stiamo preparando a eseguire pene commesse da ragazzi che avevano vent'anni, e che ora sono vecchie signore o vecchi signori di oltre 65 anni, esuli da almeno trenta. Tantomeno sono stati sollevati dubbi sullo svolgimento discutibilissimo dei processi nei quali queste persone erano state condannate. Che poi è la ragione per la quale in tutti questi anni moltissimi paesi del mondo hanno sempre rifiutato l'estradizione in Italia. Non perché si considerasse l'Italia una dittatura - come ogni tanto amano scrivere i giornali per evidenziare un paradosso - ma semplicemente perché non si aveva fiducia in una giustizia che era considerata al di sotto dei livelli minimi dello stato di diritto.

È un problema molto serio, questo. Se davvero volessimo iniziare una discussione sugli anni di piombo (diciamo sul ventennio 1971-1989) non potremmo in nessun modo aggirare la questione di come, proprio in quel periodo, la giustizia italiana iniziò ad arrotolarsi in una spirale "discrezionalista" che aumentò in modo abnorme il potere della magistratura, e le sue competenze, e la sua funzione incontrollata, e la sua missione giustiziera, non solo con il consenso ma con una vera e propria delega da parte della politica. Probabilmente, se vogliamo capire alcune delle questioni che riguardano oggi la crisi della giustizia, e l'eccesso di potere della magistratura, è da lì che dobbiamo partire: dagli anni di piombo e dell'emergenza. Dai metodi, e dai principi, e dalle politiche con le quali fu condotta la battaglia contro l'estremismo (soprattutto di sinistra, che era largamente il più ampio, ma anche di destra) e contro la lotta armata.

Questa discussione però appassiona quasi nessuno. Su questi temi (purtroppo non solo su questi temi) prevale, nella discussione pubblica (tra i politici, i giornalisti, gli intellettuali), il bisogno di propaganda. La ricerca, l'analisi, la ricostruzione delle verità storiche interessa pochissimo. La spettacolarità della retata francese conquista tutti. Autorizza il grido che smuove il popolo: "pàghino, pàghino, certezza della pena!" È in questi momenti che si riconosce, su alcuni temi, il vero dislocamento delle forze e dei pensieri. In Italia, il garantismo - cioè la religione dello Stato di diritto contrapposta alla religione dello Stato economico e alla religione dello Stato etico - riguarda un numero ridottissimo di persone e di intellettuali, un quarantina di giornalisti (sono generoso) e un numero di politici talmente esiguo che diventa persino difficile contarli. Il garantismo è considerato un sottoprodotto della politica, e un semplice strumento di alcune battaglie, da usare con cura e solo in certe occasioni.

Uno strumento - capite cosa voglio dire? - non un'idea, un principio, un fine. E dentro questa concezione del garantismo c'è un modo di pensare che accomuna praticamente tutti: considerare le garanzie proporzionali o comunque adattabili al delitto. Delitto più grave (secondo criteri peraltro variabili, che cambiano radicalmente a seconda delle opinioni e degli schieramenti politici) meno garanzie; delitto più lieve, più garanzie. Questo è tuttalpiù "indulgenzialismo", ma non ha niente a che fare con il garantismo che, al contrario, richiede garanzie crescenti nel caso dei delitti più gravi. Non c'è da stupirsi, credo, partendo da queste osservazioni, se in pochi anni i Cinque stelle sono riusciti a guadagnare milioni di voti e a sottomettere al loro modo di ragionare quasi tutti i partiti politici (tranne, credo, un pezzo di Forza Italia e i radicali).

I Cinque stelle hanno costruito il loro impero ideologico sull'unica ideologia sopravvissuta alla caduta del comunismo: il giustizialismo. Inteso come sfogo, come riequilibratore sociale, come costruttore di estremismi compatibili con il sistema. Ieri è stata la festa di questo giustizialismo. Dai capi del Pd a Fratelli d'Italia, da Salvini ai cattolici, da Repubblica al Fatto.

P.S. Può sembrare una provocazione, questo post scriptum, ma non lo è. Anzi, vuole essere un omaggio. A una signora che non conosco ma che ha sempre avuto su di me una suggestione forte, anche se credo che abbiamo idee opposte su moltissime cose, compreso il garantismo. Ma per la quale non posso avere che ammirazione per la straordinaria forza umana che ha sempre espresso. Leggete questa frase, secondo me bellissima, pronunciata in una intervista pubblicata ieri su Repubblica: "Una persona ha fatto cose negative ma anche tante cose positive, ricordiamolo per le cose positive, per il buon esempio, per il suo affetto, per la capacità di amare gli altri, ognuno ha un suo cammino. E così ho pensato anche di queste persone responsabili della morte di Gigi. Posso io relegare tutta la vita all'atto più brutto che probabilmente hanno compiuto? Forse sono stati dei bravi padri. Forse hanno aiutato gli altri. Forse hanno fatto...Questo non sta a me. Però loro non sono solo quella cosa lì, assassini, sono anche tante altre cose. Ecco, questo mi ha aiutato nel mio percorso di perdono".

Chi parla così è la signora Gemma Calabresi. L'intervistatore è suo figlio. Io, personalmente, penso che la signora si sbagli, e che Pietrostefani e Sofri siano innocenti. Ma questo non c'entra niente con la grandiosa profondità e saggezza della sua idea di umanità e di perdono.