di Claudio Cerasa
Il Foglio, 1 maggio 2021
È una storia di pizzini, di patacche, di fango, di infamie, di sospetti, di cialtronate, di calunnie e di mille altri ingredienti molto maleodoranti che da anni arricchiscono le pagine quotidiane del circo mediatico italiano. Ma lo scandalo dei verbali segreti o dei verbali patacca contenenti le deposizioni dell'avvocato siciliano Piero Amara, consegnati un anno fa da un pm della procura di Milano all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo e finiti successivamente sulla scrivania del consigliere del Csm Nino Di Matteo e su quella di alcuni giornalisti italiani, è qualcosa di molto più importante di un piccolo e casuale incendio al di là del fiume. Ed è qualcosa che contribuisce a rafforzare l'idea che la giustizia italiana sia sempre di più simile alla famosa "Lotteria a Babilonia" descritta da Jorge Luis Borges, all'interno della quale i possessori di un biglietto ricevevano premi oppure punizioni sulla base di un criterio molto semplice: il caso assoluto.
L'immagine della giustizia offerta dallo scandalo Amara (lo scandalo è relativo ad alcuni verbali d'interrogatorio coperti da segreto istruttorio consegnati a un ex membro del Consiglio superiore della magistratura, contenenti una serie di rivelazioni sulla attività di una presunta loggia massonica, all'interno della quale vi sarebbero anche delle presunte rivelazioni sull'ex premier Giuseppe Conte) è l'immagine di una giustizia certamente impazzita che si limita però a utilizzare molto semplicemente gli strumenti della gogna che l'apparato politico-giudiziario gli ha messo a disposizione. E' una storia che fotografa la presenza di correnti della magistratura che duellano da anni in modo fratricida tra loro (ogni volta che Milano sta per cambiare il capo della procura - Francesco Greco scade tra pochi mesi - le correnti iniziano a combattere battaglie con colpi sotto la cintura, come sa bene anche il predecessore di Greco a Milano Edmondo Bruti Liberati, uno dei padri nobili di Magistratura democratica, che negli ultimi mesi della sua esperienza a Milano ha combattuto una battaglia contro un esponente di Magistratura indipendente come Alfredo Robledo) seguendo modalità simili a quelle tra bande nell'indifferenza operativa anche dei garanti del Csm (il Csm, oltre che riformato, andrebbe sciolto il prima possibile).
E' una storia che fotografa un meccanismo perverso considerato naturale da un pezzo della magistratura in base al quale si considera automatico provare a ottenere attraverso le leve del processo mediatico ciò che non si riesce a ottenere attraverso un'indagine giudiziaria (il pm milanese che ha diffuso i verbali di Amara ha compiuto quella scelta, secondo una ricostruzione offerta ieri da Repubblica, "perché preoccupato dall'immobilismo che registrava in procura intorno a quelle accuse"). E' una storia che fotografa in modo mostruoso quanto possa essere pericoloso per il nostro stato di diritto avere una macchina giudiziaria governata più che dal principio della semplice aleatorietà dal principio dell'assoluta arbitrarietà (in una società dominata dalla cultura del sospetto la salvezza dell'incolpato è impossibile e può bastare a volte uno schizzo di fango per ottenere una soddisfacente condanna mediatica). Ed è una storia che in un certo senso mette in evidenza ancora una volta tutti i peggiori vizi del circo mediatico-giudiziario italiano.
Un vizio come quello di credere in modo disinvolto alle patacche (chi oggi si indigna per i giornali che hanno creduto alle parole dell'avvocato Amara, come il Fatto, sono gli stessi giornali che fino a qualche mese fa pendevano dalle labbra di Amara quando le parole di Amara erano lì a colpire non gli amici di quel giornale, come Conte, ma i nemici di quel giornale, come l'Eni). Un vizio come quello di denunciare le oscenità causate dalla violazione del segreto istruttorio solo quando le notizie veicolate da quella violazione interessano poco (i giornali come il Fatto e come la Verità specializzati nella gogna, abituati a pubblicare qualsiasi atto di indagine giunga nelle loro mani senza preoccuparsi delle ripercussioni per le persone coinvolte, oggi danno grandi lezioni di deontologia giornalistica). Un vizio come quello di trasformare i magistrati (come Davigo) in custodi assoluti della morale (l'impiegata del Csm che avrebbe inviato ad alcuni giornali delle missive anonime per sollecitare la pubblicazione dei verbali di Amara è la segretaria dell'allora consigliere Davigo, che ora è indagata per calunnia) attribuendo loro la funzione taumaturgica di combattere non più i reati (i corrotti) ma i problemi della società (la corruzione). Il problema non è, come ha detto ieri Repubblica, il modo in cui funziona il Csm e non è neppure la mela marcia chiamata Luca Palamara.
Il problema è la presenza di un sistema giudiziario a vocazione inquisitoria, devastato da correnti in lotta tra loro che la politica ha accettato di mettere al servizio di quello che il professor Filippo Sgubbi definì in un famoso libro pubblicato per il Mulino il "diritto penale totale". Un diritto che da un lato ha permesso al sistema giudiziario italiano di "legittimare provvedimenti adottati sì dalla magistratura, ma aventi natura di amministrazione e di governo e ispirati all'opportunità politica" e dall'altro ha permesso di avere "un processo penale ideato non più per accertare un fatto ma per creare un fatto" e dove il diritto non è più destinato a stabilire la giustizia, bensì ad affermare la vittoria dell'uno sull'altro.