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di Chiara Saraceno

La Stampa, 10 agosto 2023

Che i giovani guadagnino in media meno delle persone con maggiore esperienza lavorativa di per sé fa parte di una norma accettata e accettabile. È il “quanto” in meno e le sue ragioni che sollevano problemi non solo di equità, ma di sostenibilità, tanto più che i salari medi italiani sono tra i più bassi in Europa. Un salario pari al 40% del salario medio, come è il caso dei giovani sotto i 25 anni, indica una situazione di fragilità economica che impedisce ogni progettualità, a partire dall’uscita dalla famiglia di origine per provare a stare sulle proprie gambe.

Non si tratta solo di salari inaccettabilmente troppo bassi, rispetto ai quali l’esistenza di un salario minimo legale avrebbe un effetto di protezione, ma di condizioni lavorative in cui si mescolano stage, tirocini più o meno efficaci a fini professionalizzanti, tempo parziale involontario, precarietà contrattuale e conseguente discontinuità lavorativa, in modo ulteriormente accentuato se si è donne. È un fenomeno iniziato già negli anni Novanta del secolo scorso, ma che ha conosciuto una accelerazione negli ultimi dieci anni, peggiorando le condizioni di ingresso e permanenza nel mercato del lavoro per ogni coorte successiva.

La ricerca realizzata dal Consiglio nazionale giovani insieme a Eures denuncia le conseguenze di lungo periodo per le diverse coorti di giovani lavoratori in termini pensionistici. Per chi ha oggi fino a 35 anni, la pensione arriverà attorno ai 74 anni e sarà di importo molto modesto, circa tre volte l’assegno sociale, cioè quanto prende un anziano/a povero che non abbia maturato un numero sufficiente di contributi, o non ne abbia nessuno per non aver mai avuto un’occupazione, almeno non nel mercato del lavoro regolare. Il lavoro povero di oggi si tradurrà in pensione povera domani, con la beffa che, per ottenerla, bisognerà lavorare per più anni, ben dentro l’età anziana, rispetto a chi va in pensione oggi o ci è andato nei decenni scorsi.

È noto da tempo il fenomeno per cui in media chi ha iniziato a lavorare presto, ha svolto lavori pesanti e con una remunerazione modesta in media non solo prende una pensione (a volte molto) più bassa di chi ha studiato a lungo, ha iniziato a lavorare più tardi e in occupazioni meno faticose e fisicamente usuranti. Ne può anche godere per un tempo più ridotto, perché le sue speranze di vita sono più ridotte, non riuscendo sempre a fruire di tutta la ricchezza pensionistica maturata, che va a finanziare quelle dei più fortunati la cui vita sopravanza i contributi pensionistici accumulati. Oggi, con l’andata a regime del sistema contributivo, a questa disuguaglianza nelle chance di fruire della pensione per molti anni si aggiunge quella prodotta dal paradosso per cui saranno i lavoratori più poveri e con lavori fisicamente più faticosi, specie se hanno avuto una carriera lavorativa discontinua, a dover lavorare anche ben dentro l’età anziana per poter maturare il diritto a una pensione non miseranda. Ne abbiamo già visto le avvisaglie con la famigerata quota 100 che, come era da attendersi, è stata fruita nella stragrande maggioranza da lavoratori maschi con carriere lavorative continue e una buona pensione, non le lavoratrici e neppure i lavoratori con carriere discontinue o comunque con pensioni basse.

Ma non si tratta solo di mettere a punto strumenti per impedire di produrre una generazione di anziani poveri e per contenere le diseguaglianze generazionali in vecchiaia, come quelli proposti dal Consiglio nazionale giovani. La fragilità economica delle generazioni più giovani ha effetti non solo sulle loro condizioni di vita e su ciò che possono o non possono fare. Ha conseguenze anche sulla società nel suo complesso, innanzitutto peggiorando il già squilibrato bilancio demografico. Giovani che, pur lavorando, non guadagnano abbastanza per mantenersi, pagare un affitto con continuità, far progetti al di là del quotidiano, difficilmente decideranno di avere figli.

La sovrapposizione di diseguaglianze generazionali e sociali rischia di diventare una bomba a orologeria, se non per tutta la coorte di età oggi sotto i trentacinque anni, certo per la parte più svantaggiata. I, e soprattutto le giovani a bassa istruzione, infatti, sono coloro maggiormente e più a lungo esposti alla precarietà lavorativa, ai contratti intermittenti e sotto-pagati, che non consentono di fare progetti a medio-lungo termine, non solo rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, ma anche dei coetanei “più fortunati”, con una educazione migliore e con una dotazione di capitale sociale più ricca e articolata. Tra i lavoratori sotto i 25 anni, quelli in condizioni economiche più fragili sono la maggioranza. Invece di indugiare in una narrativa che vuole i giovani (poveri) come senza voglia di lavorare, sarebbe opportuno intervenire sulle condizioni i cui troppi di loro sono costretti a farlo.