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di Ilaria Gaspari

Corriere della Sera, 28 giugno 2024

Un filosofo imputato in un processo (in corso) e una filosofa riflettono sulla giustizia sommaria del “tribunale sociale” che, senza ancora una sentenza, può abbattere la vita di una persona: “Non credo che mi riprenderò”. A fine novembre, una notizia inizia a rimbalzare da un quotidiano all’altro. Leonardo Caffo, “filosofo progressista”, “pensatore animalista e nemico degli stereotipi di genere”, è accusato di maltrattamenti dalla ex compagna. Molti giornali la rilanciano insistendo, con diversi livelli di sarcasmo, sul contrasto fra il pensiero del filosofo, che si occupa da anni di animalità, il suo ruolo di intellettuale impegnato e la gravità dell’accusa.

Bomba nella sinistra: l’idolo è “maschio tossico”, sintetizza un titolo de La Verità. Negli articoli si citano dettagli tratti dalla tesi dell’accusa, solo che il processo è ancora in corso e il dibattimento non è concluso. E invece si diffonde, con la velocità con cui gli aggiornamenti viaggiano sui social e vengono condivisi, commentati, rilanciati, la percezione che il verdetto di colpevolezza sia già stato emesso. La gogna mediatica ha tempi molto più rapidi rispetto a quelli dei processi e una scarsa inclinazione al garantismo. “Ho ricevuto messaggi di persone che mi chiedevano di potermi venire a trovare. In carcere”, mi dice Caffo su zoom. Non è in carcere, ma in un parco spelacchiato dal primo caldo dell’estate, a Milano. “È stato bizzarro dover spiegare che ero a piede libero, e a tutti gli effetti incensurato”.

Com’è successo che la tua reputazione è andata in fumo?

“Quello che avevo costruito in quindici anni di studio e lavoro è crollato nel giro di quindici minuti. Dal momento in cui si è diffusa la notizia, in un quarto d’ora avrò ricevuto un centinaio di mail, oltre ai messaggi e commenti sui social. Chi mi augurava di morire, chi si offriva appunto di venire a trovarmi in prigione, chi mi dava del mostro, usando una parola a cui avevo sempre attribuito un’accezione positiva, in un senso da me lontanissimo - addirittura ci fu un titolo del Giornale, a gennaio, che mi attribuiva una frase che non mi sognerei mai di pronunciare: Scusami amore mio sono un mostro”.

Monstrum in latino è il prodigio, il portento, il fatto eccezionale. Nei titoli più enfatici di questa lunga rassegna stampa sei spesso citato come enfant prodige trasformato in paria. Che riflessioni hai fatto sulla risonanza del tuo caso?

“Ho visto all’opera il potere del clickbait. L’articolo che esce nel momento giusto perché diventi virale: la notizia del processo, di cui tutti i miei datori di lavoro erano già al corrente da mesi perché avevo ritenuto giusto informarli di quello che era un procedimento complicato e con tempi lunghi, è stata rilanciata a mezzo stampa nei giorni tragici in cui l’Italia era sconvolta dal femminicidio di Giulia Cecchettin. La notizia è stata diffusa sull’onda di una forte e comprensibile reazione emotiva a un delitto gravissimo. Il problema è che sfruttando questa risposta emotiva in primo luogo si perde l’occasione per un dibattito serio sul tema del patriarcato interiorizzato. Che effettivamente, anche in un uomo come me - che ha l’età che ha e per quanto sia considerato giovane nel mondo accademico è nato nel Novecento - di sicuro ha messo radici, malgrado quello che posso aver studiato, pensato, perché fa parte di un abito assunto inconsapevolmente, di un discorso più ampio sui ruoli e le relazioni, sull’idea tradizionale di famiglia, che va rivisto assolutamente. Ma siamo sicuri che il patriarcato introiettato lo si estirpi così? Non credo che fare di me un mostro, pubblicare la mia foto accanto a quella di Turetta, risolva il problema, che pure è un problema grave e urgente, di limitare i danni dell’annosa interiorizzazione di una cultura patriarcale violenta. Serve, al contrario, una riflessione profonda sui limiti della famiglia tradizionale, per esempio. Una riflessione critica nel senso più proprio”.

Cos’è successo a livello lavorativo?

“La cosa buffa è che proprio sul tema della famiglia stava uscendo un mio romanzo per Fandango, era già tutto pronto: Famiglia criminale, su Google lo si vede annunciato. Non è ancora uscito, vedremo. E un altro mio libro, un saggio per Raffaello Cortina sull’anarchia e il pensiero selvaggio: rimandato a data da destinarsi (forse usciamo a novembre). La collaborazione con un settimanale, su cui tenevo una rubrica che fino ad allora avevo gestito liberamente, si è interrotta. Alla NABA, dove sono professore ordinario, ho avuto una sospensione, scontata solo per un mese e poi consensualmente revocata. Con il Corriere, che pure ha avuto un atteggiamento neutrale, garantista, ho deciso di fare io un passo indietro. Insomma ho perso tutti i miei lavori nel momento in cui è stata resa pubblica la notizia di un fatto di cui, appunto, tutte le persone con cui lavoravo erano già al corrente. Fino ad allora non era stato un problema”.

Come hanno reagito i tuoi colleghi?

“In privato devo dire che ho avuto diverse manifestazioni di solidarietà. Pubblicamente, solo alcune donne (poche) si sono esposte per me. Nessun collega uomo ha preso la parola sui giornali o in TV per difendermi. E il fatto è che li capisco: e questa è una parte del problema, il segnale dell’urgenza di una riflessione critica che non si basi sulla contrapposizione pura”.

Pensi che nella risonanza del tuo caso abbia avuto un ruolo anche una forma di anti-intellettualismo?

“Sì, del resto in Italia è sempre successo. Pasolini collezionò decine di processi; ma veniva difeso pubblicamente. Carmelo Bene fu accusato di comportamenti violenti e fu difeso anche lui, addirittura in tv al Maurizio Costanzo Show. Ora c’è una risonanza mediatica diversa e fa paura essere associati a chi è accusato. E questo è il segno, come diceva spesso proprio Pasolini, che “siamo tutti a rischio”. A questa paura, dall’altro lato, si somma un interesse morboso per il gossip, un sensazionalismo facile. Ho ricevuto proposte al limite del grottesco: di strumentalizzare passando io per vittima (non ci ho pensato neanche un secondo) la mia storia, per soldi. Mi hanno proposto di seguirmi in tribunale, mi hanno offerto cifre anche alte per interviste e podcast, sapendo che vivo un momento di difficoltà economica, perché ho spese importanti legate al processo e le mie entrate si sono molto ridotte. Ho rifiutato perché mi è chiarissimo che la priorità è tutelare tutte le persone coinvolte”.

I giornali di questa lunga rassegna stampa hanno usato nel raccontare il tuo caso toni molto diversi a seconda dell’orientamento politico. Ma forse il risultato converge?

“A destra prevale la soddisfazione di poter dire “anche fra i buoni sono dei mostri”, fra l’altro su testate su cui le vicende di ministri indagati vengono trattate con allegra indifferenza. La sinistra, al contrario, mostra di non sopportare il sospetto dell’impurità, della fallibilità. Si costruiscono santini di intellettuali e pensatori e si perde di vista la componente spuria del pensiero, il rischio dell’errore. Credo che il problema, in tutta questa storia e in questo atteggiamento disciplinare, è che si perde la possibilità di distinguere, equiparando comportamenti di differente gravità, alimentando, ancora, un antagonismo tutto oppositivo. Non mi lamento, né voglio assumere la postura della vittima. È una posizione molto sgradita quella di chi non agisce ma patisce e basta; lo spiega bene un bel libro di Daniele Giglioli, Critica della vittima. Sono stato fortunato, penso che la mia vita sia come un’altalena, fino ai 35 anni sono stato in alto, ora scendo”. Hai reagito scrivendo lettere aperte ai direttori dei quotidiani che ribattevano la notizia.

“Hanno scambiato per desiderio di mantenere la mia reputazione il desiderio di proteggere faccende delicate e familiari. Non accadrà mai che io parli male delle persone implicate in questa storia. Credo profondamente nella libertà di informazione e ho fiducia nella giustizia, ma penso che tutta questa vicenda sia utile per riflettere sulla diffusione di notizie che riguardano temi sensibili. Sono questioni di cui non si vuole parlare, queste legate alla giustizia. Com’è possibile che la storia degli abusi su minori nel carcere Beccaria, denunciata e documentata, abbia avuto sui media uno spazio infinitesimo rispetto a pettegolezzi che tengono banco per mesi?”.

Oggi, qualche mese è passato. Come stanno le cose?

“In seguito anche a una petizione delle mie studentesse alla NABA, sono tornato a insegnare e sono estremamente grato all’atteggiamento maturo e garantista della mia istituzione. Con gli studenti non ho avuto problemi, mai. Ho ripreso una ricerca sulla condizione dei migranti e la concezione dei confini a cui lavoravo da anni. Se ne è parlato all’estero, ci sono stati giornali norvegesi che hanno dedicato molto spazio al progetto Rethinking Lampedusa. La stampa italiana, no”.

Il fatto di essere uno studioso di filosofia è stato di aiuto?

“Penso che un intellettuale debba avere un senso morale proprio, e quel senso morale ho cercato di coltivare, leggendo e scrivendo non per pubblicare, ma per me. Ho vissuto cose che avevo studiato: sorvegliare e punire, sulla mia pelle. Ho scoperto che può capitare che suoni il campanello a mezzanotte perché i carabinieri ti recapitano un mandato di comparizione. Ho vissuto giornate in cui la mattina spiegavo Kant ai miei studenti e il pomeriggio lo passavo a fare test per dimostrare di essere in grado di intendere e di volere ai servizi sociali. Dall’inizio di questa storia, le spese legali sono state altissime; ho fatto un mutuo. La mia psicologa credo cercasse di capire se mi sarei suicidato, statisticamente quella di saltare dal balcone è la scelta che compiono molti padri in situazioni simili alla mia. Nel 2022 si sono uccisi in molti per problemi simili al mio; la gente dice, quando succede, “si vede che erano colpevoli”. I numeri di queste morti ci interrogano, come ci interrogano e ci richiamano alla necessità di una riflessione critica profonda i numeri enormi dei femminicidi”.

Cosa ti aspetti ora?

“So che i tempi del processo sono lunghi, penso che potrebbero arrivare altre shitstorm. Sinceramente, e lo dico con tutta la serenità possibile, non credo che mi riprenderò da questa storia. Che la mia reputazione sarà riabilitata. L’unica cosa in mio potere è quella che cerco di fare: impegnarmi in modo che quello che ho vissuto io possa essere, in futuro, utile a qualcun altro”.