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di Ilaria Sacchettoni

Corriere della Sera, 27 ottobre 2023

Un testimone mentì e lo accusò dell’eccidio di Sinnai, un paese in provincia di Cagliari, solo nel 2017 la verità ha cominciato a emergere grazie a un avvocato incrollabile. Lui, ex pastore, è sempre stato un detenuto modello. C’è la richiesta di grazia, ma il nemico ora è la burocrazia. Ambiguità che nessuno vuole sciogliere: ma Luigi Pinna, superstite del massacro di Sinnai, davvero ha visto il suo assassino? In questa storia del 1991, riemersa come il fantasma di una Sardegna arretrata eppure garantista, rurale ma solidale, c’è in ballo l’innocenza di una comunità. E soprattutto quella di un uomo. E infatti per Beniamino Zuncheddu, 59 anni, trentadue dei quali trascorsi in carcere per omicidio plurimo, si stanno muovendo i Radicali e la Camera penale di Roma, Gaia Tortora e pezzi di istituzioni sarde, chiedendo ai giudici della Corte d’Appello di Roma di superare la loro stessa inerzia.

Era il 2020 quando il procuratore generale di Cagliari, Francesca Nanni, inoltrò la richiesta di revisione del processo per via di nuove prove raggiunte. Da allora Beniamino Zuncheddu, detenuto nel penitenziario di Uta (Cagliari), s’è fatto più stanco e più fragile come racconta oggi sua sorella Augusta: “Mio fratello ha sempre avuto un’ossessione per la propria dignità, lavava da solo la propria biancheria ma ora non ci arriva più. Sono triste e preoccupata”. Nel Tribunale dall’arretrato endemico la decisione è rinviata, la prossima udienza sarà il 31 ottobre con l’ascolto di alcuni testimoni. Poi si vedrà.

Torniamo allora al buio di quella sera: l’8 gennaio 1991, in un ovile di Su Enazzu Mannu (Sinnai), un fucile fa fuoco su Gesuino Fadda di 57 anni, suo figlio Giuseppe di 25 e il loro pastore Ignazio Pusceddu, 57 anni anche lui. Il quarto uomo, Luigi Pinna (genero di Gesuino: è sposato con la figlia Daniela), colpito alla gamba e alla spalla, respira in silenzio senza darsi per vinto: la mattina dopo lo troveranno ferito ma vivo le forze dell’ordine, unico sopravvissuto al massacro. L’eccidio di Sinnai ha un testimone ma subito appare incerto. Chi ha fatto fuoco, spiega, aveva il volto coperto da una calza di nylon. Siamo nell’Italia del pentapartito che si prepara alla rivoluzione felpata del pool milanese e alle Mani pulite dell’anticorruzione. A chi interessano gli allevatori del Cagliaritano? Ne parlano per un po’ le cronache nazionali ma poi il caso scivola giù sulle pagine locali e i tormenti del supertestimone Pinna finiscono nel cono d’ombra mediatico. Il pubblico ministero dell’epoca si indirizza verso un movente “agropastorale”, mucche trucidate con vecchi fucili al confine fra ovili, gli allevatori hanno la loro ferocia e punto. Si fa avanti però un ambizioso dirigente di polizia, Mario Uda, che vuol chiudere la faccenda, archiviare il faldone della procura trovando un colpevole. Fa sapere, allora, ai magistrati dell’epoca di aver ricevuto una confidenza speciale, una dritta. L’autore del triplice omicidio, denuncia, è un servo pastore con la seconda media: si chiama Beniamino Zuncheddu. Il sopravvissuto Pinna, tornando sui suoi passi, lo indica come responsabile della mattanza. Il servo pastore finisce dentro a ventisei anni, cinque mesi prima sua madre è morta in un incidente stradale, lui è già provato e quasi incapace di combattere contro quella che appare una circostanza più grande di lui. Il tempo trascorre lento quando si sta in una cella finché nel 2017 accade qualcosa.

Il nuovo difensore, Mauro Trogu, un avvocato che, all’epoca, non ha ancora quarant’anni porta avanti indagini difensive. Studia di buona lena il caso del rapimento coevo di Giovanni Murgia che si era concluso positivamente dietro il pagamento di un riscatto di 600 milioni di lire e rintraccia dei punti in comune. Il massacro di Sinnai cambia tonalità e da truce vicenda pastorale diventa sanguinoso indotto di un antico business sardo, quello dei rapimenti.

Il fascicolo Zuncheddu viene riaperto dalla Procura di Cagliari che dispone nuove intercettazioni. Si controllano i cellulari e, sorpresa, emergono nuovi elementi che tradotti dal perito della Procura (il dialetto sardo si conferma complesso) rivelano un’altra storia. Pinna, spossato, confida a sua moglie l’inganno. Affiora in particolare che il sopravvissuto, trentadue anni prima, era stato sottoposto a pressione, la foto del giovane Beniamino Zuncheddu gli era stata prima mostrata da Uda quindi era stato invitato a riconoscerlo come il killer dell’ovile. Lei, Daniela Fadda, sottolinea come sia importante mantenere sempre la stessa versione dei fatti. Qualunque reato un magistrato possa ravvisare in questa presunta manipolazione delle prove da parte dell’ambizioso Uda oggi sarebbe prescritto. Però. C’è un però. Anche una giustizia lenta e lacunosa, stavolta, non può voltarsi dall’altra parte, deve fare i conti con l’enormità della scoperta. Ricorda l’avvocato Trogu: “Ho bussato a varie porte per cercare di far capire la necessità di porre rimedio a quella ingiustizia e ogni volta che quelle porte restavano chiuse perdevo sempre più fiducia nel sistema della giustizia. Poi, però, alcune porte si sono aperte, persone di spessore straordinario hanno iniziato a voler ascoltare quella storia e con il loro lavoro hanno messo in moto una macchina che è arrivata fin qui”.

Ricapitoliamo allora: ci sono le nuove intercettazioni nelle quali Pinna confida in modo inequivocabile il peccato originale di quel riconoscimento che ha aperto le porte dell’ergastolo a Zuncheddu. E c’è un nuovo movente che i magistrati rintracciano all’interno del rapimento Murgia. Le vittime di Sinnai, i Fadda, avrebbero avuto qualche legittimo appetito verso il riscatto pagato per liberare Murgia. Dunque sarebbero diventate rivendicative e ingombranti. È un radicale cambio di prospettiva. La pg Nanni indirizza alla Corte d’Appello di Roma, competente a decidere, una corposa istanza di revisione (firmandola con Beniamino). “La dinamica dell’assalto all’ovile ricostruita nei punti precedenti consente di sostenere che gli omicidi furono commessi da un professionista del crimine per causali molto più rilevanti di qualche pallino sparato contro delle bestie” scrive. Tutto procede velocemente allora? Macché. La richiesta di revisione affonda nella palude delle pendenze processuali romane, circa 50mila fascicoli di arretrato (censite nel 2016 dall’allora presidente della Corte d’Appello Luciano Panzani, forse al momento sono di più). Beniamino ora deve guardarsi anche dalla burocrazia.

Un’istanza di scarcerazione al tribunale di sorveglianza di Cagliari, intanto, viene respinta. Scatta il ricorso di Trogu. La Cassazione riconosce che non vi è un motivo valido per tenerlo ancora dentro ma nulla si smuove se non che anche dalla Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma viene chiesta la revisione del processo. L’avvocato, con tutti i suoi dubbi, porta avanti la propria battaglia. “Quando ho letto” confida “per la prima volta la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Cagliari che nel 1992 aveva confermato la condanna all’ergastolo di Beniamino ho avuto paura. Ho pensato che se un giudice può valutare le prove in quel modo nessun cittadino può sentirsi al sicuro”.

Don Giuseppe Pisano, intanto, il parroco del paese da cui viene Beniamino lo ricorda nelle sue omelie e tiene i rapporti con Augusta. La garante dei diritti dei detenuti di Cagliari, Irene Testa, chiede un nuovo processo. C’è chi come il fotografo Alessandro Spiga realizza un servizio per lui, gli scatti lo mostrano compito nella sua rassegnazione. Un piccolo movimento d’opinione inizia a farsi strada. Oggi Zuncheddu usufruisce di un permesso per lavorare al mattino all’esterno delle mura carcerarie. Di giorno si può incontrare in un bar al centro di Cagliari, Le Bon Bec Cafè, una pasticceria specializzata in delicatessen alla cioccolata e cappuccini spumosi. All’ora di pranzo, però, la sua vita di lavoratore si conclude e l’ex servo pastore riprende il pullman che lo porta in carcere. Sua sorella, che tiene dentro di sé la sofferenza per questa vita trascorsa alla luce di accuse infamanti, lo vede la domenica. “Ha il permesso” dice “di mangiare con noi. Cucino io, mangia tutto con gusto, fosse anche un tozzo di pane e pecorino. Che in carcere il cibo è una tortura...”

Una richiesta di grazia inviata al Quirinale per competenza è ferma ma esplicita. Tutto, il rispetto degli orari e delle norme penitenziali, la capacità di sopportazione e la dignità del detenuto, fanno di Beniamino Zuncheddu un “modello”. Remissivo e collaborativo si è sempre sforzato di convivere con l’inaccettabile realtà. Tra il 10 e il 13 ottobre si è svolto un doppio sit in in segno di solidarietà per il detenuto modello. L’assurdo resta, dice il presidente della Camera Penale di Roma, Gaetano Scalise: “Beniamino ha diritto di veder definito in tempi ragionevoli un processo di revisione in cui sono emersi fatti che fanno pensare al suo coinvolgimento in un drammatico errore giudiziario”.