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di Domenico Papalia*

Il Riformista, 10 novembre 2022

Lo dico subito: della mia emarginazione e persecuzione sono responsabile anche io oltre allo Stato. Uno Stato che però non riesco a odiare. Uno Stato del quale avrei voluto fare parte.

Voglio raccontare la mia storia anche se per me è un po’ faticoso. Non ho una base scolastica, ho imparato a leggere e scrivere in carcere, da autodidatta. Sono detenuto da circa mezzo secolo e una volta non c’era possibilità di studiare. Parto dall’inizio e dico subito che, oltre a quelle dello Stato, ci sono le mie responsabilità che hanno contribuito alla mia emarginazione e persecuzione. Ma sono incapace di odiare. Non riesco a provare odio contro lo Stato del quale avrei voluto far parte. Ho sempre pregato anche per i giudici che mi hanno condannato, spesso innocentemente.

Sono nato e cresciuto in una famiglia numerosa e nella miseria. Avevamo del bestiame e ho fatto il pastore fino all’età di 18 anni. Eravamo ancora piccoli quando nostra madre si ammalò ed è caduta in depressione, costretta a letto per vent’anni, fino alla sua morte.

Ho iniziato da ragazzo con piccoli furti. Per necessità, non perché in me era innata la tendenza a delinquere. Nel 1964 un mio fratello fu ucciso senza motivo da un paesano ubriaco. Ripeto, avevo 18 anni e per placare ogni istinto di vendetta sono emigrato a Corsico, Milano. Ho trovato lavoro in una impresa edile, ma il diavolo volle che io incontrassi cattive compagnie. Accettai di andare a rapinare una gioielleria. Me l’hanno fatta vedere ed esitai perché il luogo era pericoloso, cercai di scoraggiarli. Mi dissero che avevo paura e per dimostrare che non era così entrai con loro. Il gioielliere reagì e io sparai un colpo di pistola in aria per non fargli male.

I clienti di un bar di fronte accorsero verso il negozio. Riuscii a scappare con un complice, un altro fu preso dalla folla e consegnato alla polizia. Confessò i nostri nomi, fui arrestato e pagai la mia pena. Dopo tre anni e mezzo uscii dal carcere e ritornai a Platì. Avevo capito la lezione e trovai un lavoro, ma quel precedente ha segnato la mia vita. Negli anni successivi sono rimasto legato come un cane alla stessa catena di fatti: soggiorno obbligato lontano da casa, lavoro che trovavo e che poi perdevo, ritorno obbligato a Platì e poi di nuovo via verso un altro soggiorno obbligato.

Stavo lavorando a Platì con una ditta di Genova che operava nel campo elettrico quando per il precedente della rapina la questura di Reggio mi propose per le misure di prevenzione. Fui mandato al soggiorno obbligato in un paesino della provincia di Rovigo. Trovai lavoro in edilizia ma dopo quattro mesi il ministero mi trasferì a Lonate Mezzola, un paesino in provincia di Sondrio. Il Sindaco mi disse subito che se avesse avuto un posto di lavoro lo avrebbe dato a un suo cittadino e non a me. Ho resistito una settimana. Poi, pagai l’albergo, andai dal Sindaco, gli feci vedere la ricevuta, mi recai dai Carabinieri e comunicai che sarei tornato in Calabria. Mi avrebbero denunciato per allontanamento dagli obblighi. Me ne andai lo stesso, mi presentai al Procuratore della Repubblica di Reggio e gli raccontai la situazione. Non mi fece arrestare, mi disse di tornare al paese natio e aspettare la nuova assegnazione.

Ero stato assunto dal comune di Platì e lavoravo da otto mesi quando arrivò il soggiorno obbligato nel comune di Cinisello Balsamo. Ho preso alloggio presso un albergo a spese del comune e trovai lavoro presso un’impresa edile. Una mattina di luglio del 1970 vennero a prendermi i carabinieri. Il giorno prima avevo prestato la mia macchina a un amico.

Venne trovata a Firenze abbandonata poco distante da una banca che era stata rapinata. Ero un pregiudicato per rapina, non feci il nome dell’amico a cui l’avevo prestata e fui condannato a 5 anni e 6 mesi. A nulla valse la testimonianza del personale dell’albergo che il giorno della rapina non ero proprio uscito dalla camera. Dopo due anni sono stato scarcerato per decorrenza termini, ho scontato il residuo di soggiorno obbligato e come nel gioco dell’oca sono tornato al punto di partenza. In Calabria, a Platì. Mi venne incontro una ditta di Rozzano che vendeva mezzi meccanici per conto di un’impresa francese, la Ploclain.

Raccontati al direttore la mia storia e i miei precedenti. Gli dissi che avevo solo 3 milioni di vecchie lire e chiesi di acquistare un escavatore a credito. Mi ha dato fiducia e un escavatore nuovo del costo di 30 milioni di lire. Altrettanto feci con la Fiat di Gioia Tauro che mi vendette un camion a rate. Avviai una ditta di movimento terra e a mano a mano che lavoravo pagavo tutte le cambiali anche in anticipo. Stavo lavorando onestamente, quando i “precedenti” mi riacchiapparono. Nel luglio del 1975, la Questura di Reggio mi propose nuovamente per il soggiorno obbligato e il Tribunale mi assegnò a Frasso Telesino, nella provincia di Benevento. Mi accolse la stessa storia di pregiudizio ed emarginazione da parte delle istituzioni locali. Scappai e mi diedi alla latitanza perché nel frattempo la pena per la rapina di Firenze era diventata definitiva e mi restavano tre anni e mezzo da espiare. Con la latitanza arrivarono nuove accuse e nuovi processi.

Il 2 novembre 1976 ero in via Archimede a Roma quando il mio amico Antonio D’Agostino venne ucciso. Ero presente ma essendo latitante chiesi alle persone di chiamare un’ambulanza e mi allontanai. Sono stato arrestato l’8 marzo 1977 per un sequestro di persona e per il residuo pena della rapina di Firenze. Ma fui accusato anche dell’omicidio di D’Agostino. Per il sequestro tennero conto della mia posizione marginale, della breve durata del rapimento e del trattamento umano nei confronti dell’ostaggio. Mi furono concesse tutte le attenuanti e sono stato condannato a una pena tutto sommato lieve per il tipo di reato.

Tra buona condotta, indulto e liberazione anticipata, dopo alcuni anni ho terminato la pena, ma sono restato dentro innocentemente per l’omicidio D’Agostino. Negli anni 90 lo stesso giudice che mi aveva fatto condannare, Ferdinando Imposimato, si era ricreduto e fece una campagna di stampa a mio favore. La prima istanza di revisione fu rigettata, ma non mi sono arreso e ho continuato a lottare finché, dopo 41 anni, la Corte di Appello di Perugia in sede di revisione mi ha assolto, grazie anche a una nuova perizia disposta dalla Corte che era sempre stata da me richiesta e rigettata.

Purtroppo, sono ancora detenuto perché durante la carcerazione per l’omicidio D’Agostino sono stato accusato da falsi pentiti per l’omicidio dell’avvocato Pietro Labate di Reggio Calabria ucciso a Milano il 17 novembre 1983 dal poi collaboratore di giustizia Saverio Morabito. L’esecutore materiale mi aveva scagionato, ma sono stato condannato come mandante. Non è stata creduta la mia innocenza perché - si è sostenuto - ero un pregiudicato di omicidio, quello di Antonio D’Agostino che 41 anni dopo avrebbero riconosciuto di non aver commesso.

In Cassazione, lo stesso Procuratore Generale chiese l’annullamento della sentenza e i miei avvocati stanno facendo le indagini investigative per la revisione del processo. Sempre per accuse false di collaboratori di giustizia sono stato condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, commesso l’11 aprile 1990. Anche per questo ci sono indagini difensive in corso per l’eventuale revisione. Ho già 78 anni, sono malato e di certo non vivrò altri 41 anni per vedere riconosciuta, come per l’omicidio D’Agostino, la mia innocenza.

Nella mia vita carceraria, sono stato ammesso al lavoro esterno e ho usufruito di circa 50 permessi premio. Fino al 1992, anno di inizio dell’emergenza. Sono stato ricoverato in ospedale senza scorta o in detenzione domiciliare per motivi di salute. Mi sono costituito da solo quando non fu rinnovata. Ma non si tiene conto di tutto ciò per darmi fiducia. Proprio ultimamente mi è stato rigettato un permesso premio.

Hanno considerato i due omicidi come reati ostativi, anche se l’ultimo risale all’11 aprile del 1990, prima della dichiarazione dello stato di emergenza. Non hanno tenuto conto delle sentenze della Corte costituzionale contro l’ergastolo ostativo e del mio percorso positivo: il mio impegno di studio universitario, la collaborazione con Ristretti Orizzonti, il corso di sociologia, i Laboratori Spes contra spem di Nessuno tocchi Caino. In carcere ho fatto sempre volontariato. Ho perso mio figlio di 19 anni la notte di capodanno quando una pallottola vagante rimbalzata sulla campana della chiesa del paese lo colpì a morte. Ho autorizzato l’espianto degli organi salvando la normalità della vita di sette persone. Da circa 32 anni sono iscritto al Partito Radicale e a Nessuno tocchi Caino. Sono 30 anni che collaboro con la Missione Don Bosco per i progetti nel terzo mondo.

La sofferenza della detenzione per un reato che non ho commesso ha influito sulla mia salute. Le mie difese immunitarie sono venute meno a causa delle arrabbiature giornaliere. In mezzo secolo di detenzione ne ho ingoiate tante. Ora ho 78 anni e un tumore in metastasi. Ho chiesto una sospensione pena o la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute più di un anno fa e sono in attesa di una decisione del tribunale. In Italia esiste ancora lo stato di diritto? C’è o no una Costituzione che prevede che la pena debba essere rieducativa?

Il prosieguo della mia sofferenza è inutile e gratuita. È un paradosso, ma il carcere di oggi è molto più disumanizzato e degradante di quello di una volta. Tutti questi circuiti detentivi differenziati non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. Una volta esistevano le Case di Reclusione per i condannati definitivi con lavoro assicurato e celle singole; oggi si vive in promiscuità: giudicabili e definitivi, ergastolani e condannati a pene di qualche anno. Ricordo quando dal 1970 al 1972 ero detenuto a Firenze nel carcere di Santa Teresa.

Lavoravamo tutti alla sartoria e all’Atala Sport. Le celle venivano aperte alle 7 e chiuse alle 23, cosa impensabile con la mentalità di oggi. Roba da medioevo. Per gli ergastolani che si comportavano bene, spesso, veniva chiesta la loro liberazione condizionale dal Direttore. Oggi non esiste che un Direttore chieda la liberazione condizionale o la grazia di un ergastolano che lo merita. A volte mi chiedo: se Cesare Beccaria fosse un nostro contemporaneo cosa scriverebbe a proposito del nostro carcere. Mi riferisco al carcere che abbiamo ognuno ormai dentro di noi.

*Ergastolano detenuto a Parma