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di Luigi Manconi

La Repubblica, 4 gennaio 2023

Dal 21 ottobre l’anarchico si trova nel carcere di Sassari e rifiuta il cibo contro il 41-bis. Dal 2009 già 4 detenuti morti così. Quando si fa lo sciopero della fame, di fame si può anche morire. Questa elementare consapevolezza sembra del tutto assente da quel tanto di riflessione che ha suscitato il digiuno intrapreso dall’anarchico Alfredo Cospito, a partire dal 21 ottobre scorso, contro il regime di detenzione speciale del 41-bis, cui è sottoposto nel carcere di Bancali (Sassari).

L’atteggiamento che prevale è un altro. C’è un tratto del carattere nazionale che oscilla tra un disincanto assoluto che si fa efferatezza e un consumato scetticismo che diventa amoralità. È la maschera italiana che non prende mai nulla troppo sul serio, nemmeno le tragedie e i grandi processi sociali: non le istituzioni né il cambiamento climatico, né il voto politico; e che - in odio al “buonismo” - come il Franti di De Amicis “burla perfino Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino”.

C’è qualcosa di questo dietro il silenzio che circonda la vicenda di Cospito, motivato innanzitutto da una diffusa diffidenza verso lo strumento dello sciopero della fame: “tanto mangiano di nascosto” e “al massimo dimagriscono un po’“. Sì, in effetti, Cospito è dimagrito di 35 chili. È ormai nell’undicesima settimana di digiuno, assume solo acqua, un po’ di sale e miele e qualche integratore e registra una alterazione dei sali minerali e un forte calo di potassio. 

La cosa non ha prodotto alcun interesse presso la classe politica, a parte le interrogazioni presentate da un pugno di parlamentari, e presso l’amministrazione penitenziaria, ulteriormente indebolita da un cambio di vertice. Si dà per scontato che la vicenda sia destinata a finire nell’oblio, ma è sufficiente scavare negli archivi per avere qualche sorpresa. Dal 2009 a oggi sono state ben quattro - Sami Mbarka Ben Gargi, Cristian Pop, Gabriele Milito, Carmelo Caminiti - le persone che hanno perso la vita facendo del proprio corpo l’estrema posta in gioco di una battaglia contro ciò che si riteneva una ingiustizia. 

E questo solleva importanti questioni di diritto e di etica: può lo Stato assistere passivamente a questa forma di autolesionismo? Può l’individuo astenersi dal cibo fino a morirne? Deve lo Stato intervenire con una misura di autorità anche contro la volontà del soggetto? Si tratta, come è evidente, di problemi estremamente delicati, che chiamano in causa, per un verso, il fondamentale diritto all’autodeterminazione e, per l’altro, il principio della responsabilità dello Stato nel tutelare l’incolumità degli individui, tanto più se affidati alla sua custodia.

A prescindere dalla risposta che ciascuno di noi sceglie di dare, emerge tutta l’importanza delle questioni che l’azione di Cospito pone, al di là delle sue convinzioni politiche e dei suoi precedenti penali, della sua concezione del mondo e del suo atteggiamento verso lo Stato, le istituzioni, il sistema democratico. La sua storia giudiziaria, infatti, presenta molte anomalie. In primo luogo, il fatto che Cospito è stato condannato per il reato di strage, pur se il suo atto criminale - l’invio di due pacchi bomba contro la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano - non ha prodotto né morti né feriti.

La qualificazione del reato come strage ha portato con sé sia la misura dell’ostatività (l’impossibilità di ottenere i benefici penitenziari e la liberazione condizionale) sia, appunto, il regime penitenziario differenziato, quello adottato in genere a carico dei membri della grande criminalità organizzata.

L’istituzione del 41-bis risponde a una e una sola finalità: quella di interrompere i legami tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza. Ma, col tempo, la misura si è trasformata in un regime di reclusione particolarmente pesante, discriminatorio e afflittivo: fino al divieto, nel caso di Cospito, di tenere in cella le foto dei genitori defunti, se non dopo che fossero state riconosciute dal sindaco della località di residenza.

E c’è un’altra questione giuridica di rilievo, al punto che la Corte di Appello di Torino ha disposto l’invio degli atti alla Corte Costituzionale - sono state rese note ieri le motivazioni - in base a un fondamentale principio del diritto contemporaneo: quello di proporzionalità. Il Tribunale chiede alla Consulta: esiste un rapporto equilibrato, congruo, proporzionato tra l’entità del reato commesso da Cospito e l’entità della pena inflittagli? Come si vede, il gesto dell’anarchico non riguarda solo l’interessato e la sua area politica: interroga, piuttosto, tutti noi in quanto cittadini di uno Stato di diritto, costantemente in affanno per adeguarsi ai principi che afferma.

Cospito, per dirne una, trascorre la sua ora d’aria all’interno di un cubicolo chiuso da alti muri, dove la vista del cielo è consentita solo attraverso una grata. Probabilmente, sarebbe troppo definire questa condizione “un inferno”, come diceva Fëdor Dostoevskij a proposito dello stato delle carceri russe nel racconto Il Prete e il Diavolo.

La scrittrice Emma Goldman - un’anarchica - ricorda quel testo di Dostoevskij nell’introduzione a un saggio sul sistema carcerario statunitense. Da allora, le condizioni sono mutate - enormemente mutate - ma una traccia di quell’“inferno” si ritrova tuttora nelle prigioni dei nostri sistemi democratici.