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di Michele Passione*

Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2022

Ha fatto notizia la decisione assunta lo scorso 20 maggio dal Presidente di Sezione del Tribunale di Torino, con la quale è stata rigettata l’istanza avanzata dai difensori di parte civile di anticipazione del dibattimento (la cui prima udienza è stata fissata al 4 luglio 2023!) a carico di 22 imputati di vari reati (tra questi, il delitto di tortura in danno di persone ristrette).

In realtà la notizia è emersa nuda e cruda, sostanzialmente nel silenzio generale; le sole voci, quella di Lorenzo Guadagnucci, protagonista suo malgrado dei fatti della Diaz, ed il bel documento di Magistratura democratica (“a margine di un processo per tortura”).

Rem tene, verba sequentur.

“Queste registrazioni vengono rese note solo quattro anni dopo i fatti, con una tempistica che rende estremamente ardua la ricostruzione di quanto avvenuto”. Questo un passaggio della richiesta di archiviazione avanzata nel 2015 dal PM di Parma, nota (agli addetti ai lavori) per essere stata accompagnata dalla incredibile considerazione che le affermazioni della persona offesa in quel caso (“in carcere comandiamo noi, non esistono né avvocati né giudici”) “paiono più essere delle lezioni di vita carceraria che la guardia sta impartendo al detenuto che delle minacce o delle affermazioni di supremazia assoluta e di negazione dei diritti”. Il reato di tortura era ancora un miraggio nel nostro Ordinamento.

Dal 2017 l’unico delitto costituzionalmente necessario, ex art.13 Cost., è finalmente legge dello Stato, sia pur introdotto solo per effetto delle condanne inflitte dalla Cedu nei confronti del nostro Paese, dopo la vergogna del G8 genovese.

Da allora, come un fiume in piena, che rompe gli argini e si fa strada, diverse vicende processuali sono al vaglio dei Tribunali, come ricordato nell’ultimo rapporto di Antigone.

Qualcosa sembra cambiato; lo Stato si costituisce finalmente in giudizio (laddove in precedenza si era sostenuto che la mattanza di Santa Maria Capua a Vetere era stata un’operazione di “ripristino della legalità”), e i processi vengono celebrati.

E però; il processo relativo agli episodi di tortura, falso, lesioni, omissioni di atti di ufficio e altro, in corso davanti al Tribunale di Siena, è cominciato ad aprile 2020 (l’udienza preliminare). Dopo una prima condanna per cinque poliziotti che hanno scelto il rito abbreviato, l’istruttoria dibattimentale è in pieno svolgimento, ma non è ragionevole prevedere che si arrivi a sentenza prima del 2023. I fatti sono del 2018.

Santa Maria Capua a Vetere, “la settimana santa” del 2020, pieno lockdown.

Cominciata a dicembre del 2021 l’udienza preliminare, un vero e proprio maxi processo (a centinaia e centinaia nell’aula bunker del carcere Francesco Uccella, tra imputati, parti offese e avvocati), non è dato sapere quando il Gup deciderà sul più grave episodio di tortura contestato a pubblici ufficiali nel nostro Paese. Poiché tutti i 108 imputati (salvo due) non hanno avanzato richieste di riti alternativi, se venisse disposto il rinvio a giudizio è ragionevole ritenere che il dibattimento durerà degli anni, dovendosi peraltro sentire i detenuti, non essendosi svolto l’incidente probatorio. Altri processi sono in corso.

E così torniamo a Torino. “Ragioni tabellari” vengono considerate prevalenti sul rappresentato rischio di prescrizione di alcuni reati satellite (ma di certo molto gravi) rispetto al delitto di tortura, ritenendosi difettare fattori di eccezionale gravità tali da determinare un trattamento preferenziale rispetto ad altri processi.

In disparte la questione della prescrizione, ha fatto bene l’esecutivo di Magistratura democratica a stigmatizzare la decisione assunta, attesa la gravità delle accuse elevate (ovviamente tutte da provare le responsabilità dei singoli) che “in sé costituisce un giustificato motivo per disporre l’anticipazione dell’udienza”, ed ha colto nel segno nel rilevare come gli imputati, le persone offese, lo Stato, abbiano tutti un interesse ad ottenere in tempi ragionevoli una parola di Giustizia, per evitare quella “economia di diritti sospesi” di cui ci ha parlato Foucault a proposito del castigo.

Però la tortura ancora non scuote le coscienze; dal tabù innominabile che era, oggi si può nominare, ma si tende a rimuoverla. Difficile raccontarla, difficile mostrarla, difficile provarla; la vittima è quasi sempre ribelle, fastidiosa, irregolare, e il tempo della pena fa i conti anche con questi aspetti.

Eppure la Corte dei Diritti ricorda di continuo agli Stati gli obblighi positivi in materia, che devono precedere ed accompagnare il giudizio.

Merita infine una riflessione l’inesistenza di un protocollo in Italia che regoli il concordato in appello, ex art.599 bis c.p.p., per quanto riguarda il reato di tortura, non prevedendo questa disposizione processuale alcuna preclusione alla rivisitazione della pena per il delitto di cui alll’art.613 bis c.p. Allo (S)tato, dunque, per questa ipotesi, pur riferibile all’art.3 della Cedu, che protegge Diritti inderogabili, i procuratori generali possono indicare ai magistrati del pubblico ministero i criteri idonei ad orientare la loro decisione. L’attenzione sul punto è rivolta ad altro, e non solo ai gravi reati ricordati dal Tribunale torinese (di natura sessuale, maltrattamenti, stalking). Non è qui in discussione il merito della scelta legislativa, né tantomeno si intende predicare necessariamente l’utilità di una sanzione non rivedibile in grado di appello, ma balza all’occhio l’attenzione su fattispecie ritenute di particolare allarme sociale, tra le quali, appunto, manca l’habeas corpus.

Eppure, come ha scritto anni fa patrizio Gonnella (uno che di diritti storti se ne intende), “la memoria e il desiderio di giustizia in questi casi sono l’unica fonte di salvezza della persona torturata. Non è però solo una sua aspettativa privata il ricevere giustizia. È un dovere della comunità assicurargliela”. Era il 2013. Tra poco saranno passati dieci anni.

A tempo debito.

*Avvocato