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di Andrea Pugiotto

L’Unità, 22 agosto 2023

Le morti per suicidio confermano che la detenzione è una punizione essenzialmente corporale: privazione di libertà personale, sovraffollamento, patologie psico-fisiche.

1. Entrare in carcere e non uscirne vivi. È il tragico fai-da-te che, goccia a goccia, produce gli effetti di una clemenza atipica: intervenendo prima o dopo la condanna, infatti, la morte del reo estingue - rispettivamente - il reato o la pena (arti. 150 e 171 c.p.). Attraverso il suicidio, “decidi tu quando” (Sandro Bonvissuto, Dentro, Einaudi 2012). Non c’è nulla di esistenzialmente insondabile in questi gesti estremi, se commessi dietro le sbarre. Il punto, semmai, è di non sprecarne gli insegnamenti. Vediamo quali.

2. Per una volta, le parole del ministro Nordio sono a calibro: “Ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia e mia personale”. Nelle relazioni con l’altro, infatti, custodire qualcuno significa preservarlo, provvedere alle sue necessità, accudirlo (“perché sei un essere speciale/ed io avrò cura di te”, come canta un ispirato Franco Battiato). Non diversamente, sugli apparati dello Stato che hanno in custodia decine di migliaia di individui grava il primario compito di salvaguardarne l’integrità, perché si tratta di soggetti pur sempre titolari di tutti i diritti fondamentali non incompatibili con lo stato di detenzione: in primis, la vita.

Dichiarando inviolabile la libertà personale, l’art. 13 Cost. proprio questo intende tutelare: l’indisponibilità e l’intangibilità del corpo comunque ristretto. Della sua morte dietro le sbarre, quindi, è lo Stato il responsabile, anche solo per omissione. La drammatica questione dei suicidi dietro le sbarre rivela così la sua autentica natura. È questione politica? Certamente. E questione legata all’amministrazione della giustizia? Senza dubbio. È una gigantesca questione umanitaria? Anche. Ma, prima di tutto, è una questione di legalità (costituzionale, legislativa, regolamentare) violata

3. C’è di più e di ancora più grave. Quando la macabra hit parade dei suicidi in cella raggiunge vette da record (85 nel 2022, mai così tanti; già 47 ad agosto 2023), il problema tracima e rischia di travolgere la legittimazione degli apparati coercitivi dello Stato. Il diritto, infatti, serve a domare la violenza attraverso il monopolio statale della forza legittima, posto a tutela dell’incolumità dei cittadini, siano essi liberi o incarcerati. Se lo Stato viene meno a tale compito è il contratto sociale a saltare, poiché l’obbedienza alle leggi e la lealtà dei cittadini non trovano più corrispettivo. Ciò è lampante se la morte segue un pestaggio o una tortura per mano di agenti penitenziari, perché “la divisa non è uno scudo penale, non è un fattore di immunità. La divisa, semmai, è fonte di accresciuta responsabilità” (Patrizio Gonnella). Ma non è diverso quando un detenuto si suicida, se quel gesto estremo è riconducibile ad una detenzione non conforme all’ordinamento penitenziario. Essere incarcerati, infatti, non può voler dire essere condannati a venire maltrattati, isolati dai propri familiari, stipati in celle sovraffollate dove si sopravvive a stento, vedersi preclusa ogni offerta trattamentale, patire la pena extra-ordinaria dell’abbruttimento, dell’umiliazione, della perdita di sé, fino ad essere indotti a togliersi la vita. In entrambi i casi - morte subita o autoindotta - la dinamica è sempre la stessa: si entra in carcere e non se ne esce vivi. Anche così cresce il deficit di legittimazione che erode progressivamente le istituzioni, come in altri aspetti - egualmente essenziali - del contratto sociale: si pensi alla rappresentanza politica, deteriorata dalla crescita esponenziale dell’astensionismo elettorale. Sono crepe allarmanti, avvisaglie di possibili cedimenti strutturali.

4. Le morti per suicidio, inoltre, confermano che la detenzione è una punizione essenzialmente corporale, cioè primitiva: privazione di libertà personale, sovraffollamento, negazione della relazione sessuale, patologie psico-fisiche, autolesionismo e - appunto - suicidi. Per quanto ogni atto estremo faccia storia a sé, tutti i suicidi sono agiti all’interno di un regime detentivo, che non si può ridurre a fondale, rappresentando la concausa essenziale di tali scelte tragiche. Studi epidemiologici sulle morti in carcere confermano tale nesso causale. Per parte sua, il Comitato Nazionale di Bioetica ha parlato di fenomeno suicidario aggravato dal marcato sovraffollamento degli istituti di pena e dall’elevato ricorso all’incarcerazione (cfr. parere del 25 giugno 2010). Se ne mostrò persuaso anche l’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, denunciando pubblicamente che quella carceraria è “una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”, allarmante “per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”. Era il 28 luglio 2011: parole inascoltate, come lo fu il suo conseguente messaggio alle Camere. Nel frattempo, dal 2012 ad oggi, in galera si sono verificati 715 suicidi. Del resto, sono altre le parole che compongono l’attuale vocabolario carcerario. Pena sta per sofferenza, prima ancora che per sanzione. Espiare è una forma verbale punitiva e patibolare. L’azione penale è obbligatoria perché il pan-penalismo tutto persegue, scaricando poi quel tutto nel carcere. La certezza della pena, da garanzia formale di prevedibilità della sua misura edittale, oggi invece esprime l’ingiunzione a che la condanna sia espiata dietro le sbarre fino all’ultimo giorno. Una pena che per i detenuti più pericolosi deve tradursi in carcere duro, come viene chiamato impropriamente - ma eloquentemente - il regime detentivo speciale del 41-bis. Un’incarcerazione così non può che essere predatrice di vite.

5. Nella loro drammaticità, i suicidi in carcere certificano il fallimento storico dell’istituzione carceraria e della pena, qualunque sia la sua funzione (retributiva, preventiva, rieducativa, di difesa sociale). E quanto i movimenti abolizionisti sostengono, da sempre. Come già accaduto per la schiavitù, i lavori forzati, la tortura e (nella maggior parte dei paesi aderenti all’ONU) la pena capitale, così anche il carcere sarà, prima o poi, riposto tra gli arnesi dismessi dalla storia del diritto penale. In questa prospettiva abolizionista, non è più sufficiente perseguire la morte della pena di morte (l’abolizione universale della pena capitale). Né la morte della pena fino alla morte (l’abrogazione dell’ergastolo). Né la morte della morte per pena (la prevenzione dei decessi dietro le sbarre). Va definitivamente decretata la morte della pena tout-court, identificata nel carcere come luogo di morte: del diritto, dei diritti, delle persone detenute cela una contraddizione logica. Perché se il carcere è morte, allora il suo superamento definitivo esige la morte della morte, che non è cosa possibile né concepibile. L’abolizionismo inciampa così in un paradosso, che ne rinvia l’affermazione a un tempo impolitico.

6. Qui e ora, più che abolirlo il carcere va ridotto a extrema ratio: è questo il filo da tessere, tenue ma tenace. Il carcere, cioè, va progressivamente svuotato e mai più riempito di nuovo, riservandolo ai casi in cui non siano efficaci altri strumenti di tutela per beni ritenuti essenziali. Lo impone la Costituzione, che non conosce il lemma “carcere”, parla di “pene” al plurale e concepisce la detenzione “non come “punto d’arrivo”, ma come punto da cui “ripartire”“ (Giovanni Maria Flick). Su cosa e come fare per riuscirci disponiamo già di preziosi manuali d’istruzioni, prodotti dal lavoro collettivo dell’Ufficio del Garante nazionale (presieduto da Mauro Palma), degli Stati Generali sull’esecuzione penale (presieduti da Glauco Giostra) e della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario (presieduta da Marco Ruotolo). Tradurli finalmente in leggi, regolamenti, circolari, è il vero modo per riparare all’evidente fallimento dello Stato davanti ai troppi Miche, cui hanno aperto la cella quando ormai era già tardi.