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di Giuseppe Bonaccorsi

Il Dubbio, 2 aprile 2024

Due imprenditori di Catania di 49 e 35 anni, responsabili di una ditta trasporti, nel gennaio di due anni fa erano stati arrestati dai carabinieri del Nucleo Ispettorato del lavoro e posti ai domiciliari con l’accusa di estorsione per aver minacciato un dipendente. Le accuse si sono rivelate false, ma l’azienda è ormai fallita. Due anni di calvario giudiziario. Poi l’assoluzione piena ma nel frattempo l’azienda è fallita.

È quanto accaduto a due imprenditori di Catania di 49 e 35 anni, responsabili di una ditta trasporti, che nel gennaio di due anni fa erano stati arrestati dai carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro e posti ai domiciliari con l’accusa di estorsione per aver intimidito un loro dipendente, con la minaccia di pesanti ritorsioni se questo non avesse restituito parte del denaro ricevuto in busta paga. Addirittura i due, rimasti agli arresti per mesi, erano stati accusati dalla presunta vittima - che aveva sporto denuncia facendo scattare le indagini - di essersi impossessati della sua carta bancomat per prelevare direttamente quanto richiesto illecitamente.

Il gip aveva anche disposto per gli imprenditori l’interdizione temporanea dell’attività imprenditoriale e a causa proprio di questo provvedimento la ditta sarebbe poi fallita. La tesi dell’accusa verteva sul fatto che i due, con minacce implicite ed esplicite di licenziamento, si sarebbero procurati un ingiusto profitto consistito nell’avere ottenuto la restituzione di somme eccedenti lo stipendio mensile erogato, operando direttamente il prelievo dal conto della vittima. Inoltre con l’ausilio di un ingegnere i due avrebbero anche firmato false attestazioni di formazione in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro.

A distanza di due anni, però, tutto è stato capovolto e la vittima in realtà è risultata il carnefice. I due imprenditori hanno dimostrato, con l’ausilio dei loro legali - tra i quali l’avvocato Ivan Maravigna del foro di Catania - che in realtà il dipendente era stato sì avvertito di licenziamento, ma a causa dei continui ammanchi di denaro dalla ditta che l’uomo - che svolgeva mansioni di autista - prelevava nel corso dei suoi giri per poi depositarli in azienda. Per questo i due imprenditori avrebbero chiesto all’uomo la restituzione del maltolto e quest’ultimo, anziché sanare la sua posizione, si era rivolto alle forze dell’ordine denunciando i fatti e fornendo una ricostruzione che soltanto adesso è stata riconosciuta priva di fondamento, tanto che il dipendente da vittima è diventato accusato e sul suo capo pende adesso una richiesta di rinvio a giudizio per il reato di calunnia.

Tutto bene quel che finisce bene, se non fosse che adesso ci sono due imprenditori a spasso e una azienda che dava lavoro ad altri autisti fallita per una presunta miopia giudiziaria ed investigativa. L’amara realtà di una giustizia talvolta superficiale arriva dalle parole dell’avvocato Maravigna che al termine dell’udienza di assoluzione dei due assistiti si è lasciato andare a un commento amaro: “Ci troviamo dinnanzi all’ennesimo caso di “false accuse” che riescono ad alimentare procedimenti penali nei confronti di soggetti innocenti con danni non certamente irrilevanti. Questa volta è il turno di un dipendente infedele che, per coprire le sue appropriazioni indebite di somme di denaro percepite per conto dell’azienda e per fare fronte ai debiti accumulati a causa della propria ludopatia, ha ben pensato di calunniare i propri vertici aziendali.

Il mancato, e ci si consenta di dire doveroso, vaglio delle sue traballanti dichiarazioni, ha decapitato una azienda per diversi mesi, costringendola alla richiesta di auto fallimento. Adesso - ha concluso Maravigna - si dovrebbe dire che “la Giustizia alla fine trionfa sempre”. Ma ormai il danno è stato fatto con conseguenze gravissime per chi finisce in questo tritacarne”.