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di Sandro De Riccardis

La Repubblica, 9 gennaio 2023

Arrivò da Roma in pieno ‘68, giovane vicecommissario che chiese subito di stare per strada. Il prefetto per tanti anni questore della città la racconta attraverso la sua cronaca nera. Arrivò a Milano in uno dei periodi più movimentati della storia della città e dell’intero Paese, quel 1968 in cui venne assegnato da giovane vicecommissario alla questura di via Fatebenefratelli. Dalla strage di piazza Fontana all’omicidio Calabresi, dalla stagione dei sequestri di persona all’invasione della droga, dall’esplosione della protesta studentesca allo sgombero del Leoncavallo, Achille Serra è stato testimone di oltre cinquant’anni di dolori, ferite, rivolte metropolitane ma anche di successi e soddisfazioni investigative.

Prefetto Serra, qual è la prima fotografia che le è rimasta impressa della città?

“La nebbia. E poi il freddo e la neve. Ricordo ancora che con il mio collega, appena entrati in polizia, fummo destinati a dormire al commissariato Musocco, ma sbagliammo strada in macchina e ci ritrovammo vicino a Brescia perché la nebbia non ci consentiva di vedere dieci metri in avanti. La nebbia è una delle cose che sono totalmente cambiate rispetto a oggi, così come la neve che già a ottobre investiva Milano”.

Come furono i primi anni in polizia?

“Ho fatto tutti i gradini che può fare un funzionario. Ho avuto la fortuna di avere questori favolosi che sapevano formare. Mia madre voleva facessi l’avvocato, ma rimasi in polizia grazie a un grande questore, Giuseppe Parlato, che fu anche capo della polizia. Gli dissi che volevo fare attività in strada, in prima linea, altrimenti sarei tornato a casa. Mi rispose che dovevo farmi un po’ le ossa, ma poi mi trasferì come funzionario alle volanti. Fu la svolta nella mia vita, perché altrimenti avrei fatto l’esame di avvocato a Roma, la mia città. Invece scattò l’innamoramento. Allora dissi a mia madre che sarei restato, che quel lavoro mi appassionava”.

La sua fu la prima volante ad arrivare alla Banca nazionale dell’agricoltura, il giorno della strage di Piazza Fontana...

“Ci fu una chiamata per l’esplosione di un tubo del gas con uno o due feriti. Chi si manda? Il più giovane. Arrivai a sirene spiegate con l’ardore del giovane che va a trovare due feriti, e invece mi accorsi subito che era successo qualcosa di grave. Entrai in banca e ne uscii sconvolto. Vidi un uomo nella grande sala metà corpo e metà sangue, altri corpi dilaniati contro il muro. Mi attaccai alla radio. “Mandate cento ambulanze”, urlai. Mi presero come un giovane sprovveduto, purtroppo non mi ero sbagliato. In pochi minuti la piazza era colma di polizia, non era mai successo in Italia un fatto del genere”.

Meno di tre anni dopo, l’omicidio del suo collega, il commissario Luigi Calabresi...

“Io ero amico di Calabresi. Tutti e due romani, ci separavamo pochi anni e avevamo fatto amicizia. Dopo la morte di Pinelli in questura, ogni giorno sui muri, nelle piazze, nei comunicati degli intellettuali veniva chiamato “assassino”. Io gli dicevo di andare via, di farsi trasferire. “Al mio posto tu andresti via? - ribatteva - Che ho fatto per dover andare via?”. E aveva ragione. Ancora oggi provo ribrezzo per il governo di allora, perché bisognava trasferirlo d’ufficio, ad Agrigento... a Caltanissetta... Quanto meno bisognava assegnargli una scorta consistente, invece usciva di casa da solo, e così fu ucciso”.

In pochi anni ha ricoperto tutti i ruoli in questura. È stato alla squadra mobile, alla guida della Digos, poi alla Criminalpol...

“Ero alla mobile con il prefetto Umberto Improta, che era napoletano. “Uagliò, tu vuoi fare il questore facendo solo la squadra mobile - mi disse -. da domani mattina vai a dirigere la Digos”. Allora si chiamava Ufficio politico. Avevo quarant’anni”.

La violenza politica esplodeva in mille forme, dalle rivolte nelle università al terrorismo...

“Tutti i sabati c’erano manifestazioni e il responsabile dell’ordine pubblico mi voleva al suo fianco. Si incendiavano le auto, si lanciavano molotov, le università erano il centro della rivolta. Ricordo un assedio alla Statale, nel 1970: dal primo piano piovevano molotov e sassi. Uno colpì il vicequestore vicario Luigi Vittoria, che si rifiutò di andare in ospedale, anche quando una bastonata gli fratturò il braccio. Finché non riuscimmo a entrare, e nel cortile trovammo trecento studenti, tra cui il leader del movimento studentesco Mario Capanna, e anche un magistrato di cui non ho mai fatto il nome. Erano tutti pronti con le braccia accostate per fasi mettere le manette, ma noi non avevamo trecento manette. Ogni sabato era la stessa situazione. Poi arrivò il terrorismo. Anni difficilissimi. Uscivamo di casa e non sapevamo se saremmo tornati. Anche se un giovane funzionario che non contava nulla poteva essere ucciso. Si sparava a Montanelli così come a un semplice poliziotto”.

Il suo nome è legato anche a Renato Vallanzasca...

“Prima ci imbattemmo in Joe Adonis, collegamento tra la mafia americana e quella siciliana, dominus di bische e locali notturni. Viveva in un appartamento in via Albricci, vicino al Duomo. Il fenomeno Vallanzasca invece nasce così: c’erano rapine ai supermercati alle quattro del pomeriggio, ogni giorno. Arrivavano con i mitra e sparavano in aria, terrorizzando tutti e rischiando di fare male a donne e bambini. Io dirigevo la sezione Rapine, con me c’era il più grande maresciallo della squadra mobile, Ferdinando Oscuri. Non riuscivamo a capire chi fossero questi malviventi. Finché lui mi disse che si trattava di due fratelli incensurati, i Vallanzasca. Facemmo dei controlli ma non trovammo nulla. Così io mi portai Renato in ufficio, ero giovane io ed era giovane lui, ci siamo sfidati tutta la vita. Si tolse il Rolex e mi disse: “Se riesci a incastrarmi, è tuo”. Ci riuscimmo perché Oscuri recuperò nel secchio dell’immondizia, a casa di Vallanzasca, le buste paga strappate del supermercato di viale Monterosa, dove c’era stata l’ultima rapina. Gli lasciai l’orologio sul tavolo dell’interrogatorio. “Ti ho fregato e ora vai in carcere”, gli dissi”.

Fu la prima volta che lo arrestò...

“È stata la costante di un pezzo della mia carriera. Ho anche aiutato la madre novantenne. Quando era in carcere fuori regione, mi adoperai per farlo trasferire in Lombardia. Lui mi ringraziò e mi regalò un calendario. “L’ho dipinto con le mie mani - mi disse - grazie per quello che ha fatto per mia madre”.

Una criminalità romantica, prima della stagione dei sequestri di persona...

“In dieci anni furono almeno un centinaio. Il primo fu quello di Daniele Alemagna, rapito nel 1974 a sette anni. Allora non sapevamo nemmeno cos’era un sequestro. Il padre mi diede l’ultima lettera che ricevette. E mi disse in lacrime: “Metto la vita mio figlio nelle sue mani”. Ricordo quello di Marcella Boroli, figlia del presidente dell’Istituto geografico De Agostini, rapita nel 1974 nonostante fosse incinta. E poi quello dell’ingegner Carlo Lavezzari, nel 1978. Fu l’indagine più bella della mia carriera: riuscimmo a prendere uno dei banditi mentre parlava da una cabina con la moglie. Ci fece impazzire tutta la notte a caccia della prigione. Ci disse che era in via Renato Serra, ma lì c’era un chilometro di palazzi. Da poco era stato ucciso Aldo Moro, dopo che la polizia era stata vicina al covo senza entrarvi, non potevamo correre lo stesso rischio. Perquisimmo decine di appartamenti senza trovare nulla. Poi ci diede l’indirizzo esatto. Circondammo lo stabile, prendemmo quelli dentro. Lavezzari era legato con le catene, ridotto a uno scheletro, raccontò che veniva frustato dal telefonista. “Lei è il mio secondo padre” disse”.

Lasciò Milano dopo la nomina a questore...

“Nel 1991. Fui mandato a Sondrio, mi aspettavo una città importante dal punto di vista criminale e invece i cittadini lasciavano le chiavi in auto. Passavo il tempo alla finestra del mio ufficio a contare le persone che passavano in piazza. Dopo sono stato a Cremona, anche qui tanta pace. A ottobre di quell’anno arrivo allo Sco e dopo un anno e mezzo il capo della polizia Vincenzo Parisi mi riportò a Milano da questore”.

Era il ‘93. La Lega conquistò Palazzo Marino, con il sindaco Formentini...

“La città era attraversata da mille tensioni sociali. La Lega cresceva e chiedeva spazio, il Leoncavallo era sempre agitato perché doveva abbandonare l’immobile. Riuscimmo a sgomberarlo senza nessun tipo di contrasto, una delle cose che ricordo con più soddisfazione. Milano era cambiata, la malavita era frammentata in tanti gruppi, era esploso il problema della droga. Al posto dei Vallanzasca e dei Turatello, c’erano bande di piccoli pusher perché la droga era consumata da tutti. Venne da me un architetto, mi parlò della figlia di sedici anni che si era innamorata di un balordo ed era finita schiava dell’eroina. Mi chiese aiuto. Vidi una ragazza di una bellezza eccezionale, ci parlai tante volte, alla fine pensai di essere riuscito a tirarla fuori. Ma dopo sei mesi, una volante mi chiamò per una donna morta su una panchina. Era lei. La droga era la cosa che più mi preoccupava da questore”.

Furono anche gli anni della discesa in campo di Silvio Berlusconi...

“Lo incontrai un anno dopo allo stadio, c’era Milan-Roma. Io sono romanista, purtroppo la Roma perse. Lui ci disse che dopo la partita ci saremmo visti a cena. “Se divento presidente del consiglio la farò capo della polizia”, mi disse. Pensai a una delle tante promesse dei politici, e invece quando divenne premier mi arrivò una telefonata. Era Berlusconi: “Non sono riuscito a farla capo, ma vicecapo e prefetto - m’informò -. Spero che sia contento”. Mi confidò che fu l’allora presidente Scalfaro a non volermi. Preferì Masone”.

Oggi gli indici dei reati in città sono in calo. Eppure resta alto il senso di insicurezza dei cittadini...

“Credo che molti reati non vengano denunciati, anche se furti e violenze restano e fanno crescere l’insicurezza. Quando sono arrivato a Milano, il senso d’insicurezza era concreto, vero, ma la gente si aiutava, i vicini di casa si interessavano se c’era un rumore strano nella casa accanto. Ora noto maggiore chiusura, non per omertà, ma per la sensazione di perdere tempo, di essere coinvolti in lunghi iter burocratici. Si preferisce non occuparsi degli altri. Mi sembra che Milano sia peggiorata. Prima c’erano dei nemici ben definiti, oggi la criminalità è polverizzata, sfrutta l’immigrazione incontrollata per reclutare manovalanza. Per questo se tornassi a fare il poliziotto sarei più preoccupato oggi che nei miei anni in prima linea”.