di Francesca d’Aloja
Corriere della Sera, 8 febbraio 2023
Escluse da istruzione, lavoro, sport, e le passeggiate al parco senza accompagnatore sono proibite. Sono state allontanate anche dalle Ong. È difficile capire il livello di terrore che impedisce agli afghani di protestare. Come può rispondere la comunità internazionale?
“Sembrava di vivere in un Paese senza donne... conoscevamo il chador, l’abito che nasconde il corpo delle maomettane, avevamo visto alcune figure imbacuccate, informi, passare veloci per i vicoli dei bazar, ma queste apparizioni avevano poco di umano. Erano ragazze, madri, vecchie, che età avevano, erano allegre o tristi, belle o brutte? Come vivevano, cosa facevano, a chi andava la loro attenzione, il loro amore, il loro odio?”.
Così scrive Annemarie Schwarzenbach nel libro Tutte le strade sono aperte, a commento di ciò che vide arrivando in Afghanistan in automobile, guidando dalla lontana Svizzera, durante l’incredibile viaggio compiuto insieme all’amica Ella Maillart nel 1939. Ottantatré anni dopo, nel medesimo luogo, di fronte alle stesse immagini, mi sono posta analoghe domande, e molto probabilmente chi si troverà a passare da quelle parti fra venti o trent’anni assisterà purtroppo a scene simili. Questo per dire che il processo di cambiamento invocato da noi occidentali e auspicato da una parte (esile, ahimè) della popolazione afghana, si fonda su concetti e presupposti difficili da comprendere, tanto più osservando ciò che sta accadendo in questi giorni, quando le lancette del tempo non solo non avanzano, ma retrocedono di secoli.
La logica e la realtà - Non servono intelligenza e perspicacia per cercare di capire, la logica in certi casi non aiuta: è forse possibile capire la ratio che ha originato il divieto all’istruzione, al lavoro, alla pratica dello sport, all’ascolto della musica, alla innocente passeggiata in un parco? È immaginabile che nel 2023 ci siano donne che non possono uscire di casa se non accompagnate da un uomo di famiglia? Nessun Paese al mondo, nessun regime si è mai permesso di negare alle donne il diritto all’istruzione, nessuno. Solo l’Afghanistan dei talebani si è spinto così in basso, imponendo divieti che calpestano non soltanto i diritti umani ma gli stessi precetti della shariah, in nome della quale vengono giustificati. Malgrado gli impegni presi con la comunità internazionale, la frangia più radicale dei Talebani sta disattendendo l’iniziale promessa di “tolleranza”, e il disegno di esclusione delle donne dalla vita politica e sociale si fa sempre più intransigente. Con l’editto del 24 dicembre, le donne che lavoravano nelle Ong nazionali e internazionali sono andate ad aggiungersi alla lunga lista delle escluse. E di nuovo viene spontaneo chiedersi perché? Perché promuovere una misura così drastica e autolesionista che non tiene conto delle inevitabili, tragiche conseguenze sull’intera popolazione, già piegata da un collasso economico e alimentare senza precedenti?
Domande senza risposta - In un Paese in cui, per ragioni culturali, le donne non possono interagire con operatori umanitari uomini, la partecipazione femminile è fondamentale: chi aiuterà una donna a partorire se non potrà più contare sulla presenza di un’ostetrica?
Chi accoglierà le ragazze e le donne bisognose di aiuto che si presentano quotidianamente nei presidi medici e sanitari allestiti dalle organizzazioni umanitarie dislocate sul territorio? “È una situazione insostenibile, le nostre unità sanitarie mobili sono ferme - (furgoni attrezzati che raggiungono le comunità remote bisognose di assistenza, ndr) - e tutte le altre attività di protection, che si occupano di denutrizione, educazione all’igiene, disagio familiare, maltrattamenti e assistenza legale, sono state vietate” mi dice con tono accorato Sergio Mainetti, responsabile di Intersos, l’ONG italiana che opera in Afghanistan (e in altri 23 Paesi) dal 2001, e conta sul contributo di 340 donne lavoratrici.
Un danno incalcolabile soprattutto per i beneficiari che vivono nelle aree rurali remote delle province di Kabul, Zabul e Kandahar la cui assistenza umanitaria dipende quasi esclusivamente dagli interventi delle ONG. Come atto di solidarietà nei confronti delle donne impossibilitate a lavorare, Intersos aveva inizialmente preso la decisione di sospendere le attività, in linea con altre organizzazioni umanitarie, secondo quanto riferito da Acbar (Agency Coordinating Body for Afghan Relief & Development), l’organismo indipendente afghano che rappresenta 183 ONG nazionali e internazionali, da giorni impegnato a esercitare pressioni sul governo talebano affinché torni sui suoi passi.
Pochi spiragli di dialogo - Le delicate trattative in corso tengono conto dell’atteggiamento non del tutto monolitico dei vari ministeri, soprattutto quello della Sanità (il più interessato al mantenimento del lavoro femminile) al cui interno paiono aprirsi spiragli di dialogo. Sebbene aspettarsi un voltafaccia repentino da parte del governo centrale risulti illusorio, si tenta un approccio pragmatico attraverso accordi locali o di settore (è frequente la disomogeneità territoriale nel rispetto delle regole imposte, seguite più o meno fedelmente a discrezione del governatore locale), ribadendo tuttavia che la partecipazione delle donne è centrale e non negoziabile. Intanto Intersos ha ripreso le attività a Kabul e presto, si spera, nelle altre sedi.
Ci si muove dunque a piccoli passi, cercando di aggirare i divieti senza mettere a rischio le attività umanitarie e le persone che vi prestano servizio. Susanna Fioretti, presidente di Nove Onlus, l’Ong che da anni si occupa della condizione delle donne afghane, promuovendo progetti e iniziative che le riguardano direttamente, non vuole farsi scoraggiare e conferma la presenza di Nove in Afghanistan: “Abbiamo intenzione di restare, finché sarà possibile. Abbiamo dovuto sospendere alcune attività ma riusciamo ancora a dare alle donne aiuti di emergenza, opportunità alternative di educazione e lavoro, utilizzando vie rimaste aperte o inventandone di nuove”.
La comunità internazionale - Secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre la metà dei 38 milioni di afghani necessita di assistenza umanitaria. Il segretario generale dell’Onu António Guterres ha definito le restrizioni “irresponsabili e pericolose” qualificandole come “ingiustificabili violazioni dei diritti umani”. Ma cosa può fare la comunità internazionale? Diverse associazioni (portavoce nella difesa dei diritti femminili, rappresentanti Ong, esperti di terrorismo internazionale) hanno avanzato alcune proposte al Consiglio di Sicurezza Onu: oltre a incrementare le sanzioni, si richiede l’immediato divieto di accesso ai conti bancari esteri e relative transazioni internazionali ai leader talebani le cui famiglie risiedono all’estero, con consegue rimpatrio permanente dei familiari. Si chiede inoltre di valutare la possibile estradizione dei leader talebani (che non potranno beneficiare di immunità diplomatica non essendo stato considerato legittimo il loro governo), affinché sia avviato nei loro confronti il procedimento per crimini contro l’umanità, davanti al Tribunale dell’Aia.
Il consenso - È indubbio che la condanna unanime della comunità internazionale e la richiesta di una presa di posizione intransigente siano auspicabili, tuttavia l’attuale governo talebano pare più preoccupato del consenso interno che di quello internazionale. Basando il proprio regime sul terrore, seduce i militanti più radicali ripristinando lo stesso clima instaurato durante la prima presa di potere (1996/2001), attraverso l’applicazione ultrarigorista dell’Islam, dimostrando ancora una volta quanto la sua struttura ideologica si fondi molto sulla religione (o meglio sulla sua interpretazione estremistica) e poco sulla politica. L’educazione scolastica è il bersaglio centrale nel nuovo governo talebano, che definisce il programma scolastico seguito nei vent’anni precedenti “pieno di brutte superstizioni”, perché frutto della contaminazione con il corrotto mondo occidentale. Superstizioni che hanno il nome di democrazia, uguaglianza, diritti civili, diritti delle donne.
Le restrizioni promosse dai talebani a ridosso del loro insediamento nell’agosto 2021 formano una lunga lista di aberrazioni, vale la pena di riportarne alcune: il 13 agosto gli imam ricevono l’ordine di fornire i nominativi delle donne nubili da “offrire” ai loro combattenti, l’8 settembre vengono bandite le proteste e gli slogan, tre giorni dopo si proclama il divieto di accesso agli studi secondari per le ragazze seguito da quello di frequentare l’università, il 17 settembre il ministero per gli Affari femminili viene sostituito dal ministero della Virtù e prevenzione del vizio, il 22 novembre le donne sono escluse dai programmi televisivi, segue il divieto di viaggiare senza l’accompagnamento di un uomo, la proibizione di ascoltare la musica, praticare sport, andare al parco... e via di seguito fino al recente, raccapricciante, ripristino delle flagellazioni (per crimini “morali”) e delle esecuzioni sulla pubblica piazza. È bene tenere a mente questi fatti quando ci si chiede comprensibilmente come mai in Afghanistan la popolazione non reagisca a tali soprusi, facendo un parallelo con ciò che accade in Iran o in Ucraina, Paesi in cui la società civile combatte quotidianamente contro un regime che la opprime o un invasore che l’attacca.
Il nulla - Le immagini di uomini e donne, ragazzi e ragazze, che lottano coraggiosamente per la libertà, scatenano, in noi che osserviamo impotenti, un’intensa reazione emotiva. Il fatto che in Afghanistan non accada la stessa cosa, veicola l’ambigua e subdola idea di un popolo rassegnato, che subisce senza reagire. È difficile capire il livello di terrore che impedisce gli afghani di protestare, un terrore seminato in decenni, nutrito da una cultura ancestrale prigioniera delle sue stesse regole. È sbagliato fare paragoni con un popolo fuori dal tempo, il cui tasso di analfabetismo è fra i più alti al mondo. Chi poteva permetterselo è fuggito, lasciando un Paese orfano di professionisti e intellettuali. Sono rimasti i più poveri, divisi in etnie diverse e nemiche. La risposta che mi diede una donna di Kandahar alla domanda su cosa fosse cambiato nella sua vita dopo l’avvento dei talebani, fu la seguente: “Nulla”.
Il cambiamento interno - Il prima e il dopo non esistono in Afghanistan. Non ancora. La comunità internazionale, oltre al sacrosanto invio di aiuti umanitari, può fare ben poco. Indurre i talebani a cambiare atteggiamento spetta soprattutto ai leader del mondo musulmano, i quali dovrebbero convincere i talebani che l’interpretazione dei diritti delle donne sotto la shariah differisce in gran parte dalla loro versione. L’unico possibile grimaldello è la cultura, lo sanno bene i talebani che non a caso hanno bandito l’istruzione. E forse il germoglio di un possibile cambiamento potrebbe nascere all’interno dello stesso movimento talebano, viste le recenti posizioni di alcuni elementi di spicco (tra cui il vice leader talebano e ministro dell’Interno Sirajuddin Haqqani e il ministro dell’Istruzione superiore Abdul Baqi Haqqani) che hanno chiesto la revoca del divieto all’istruzione. In una parola, soltanto gli afghani potranno cambiare gli afghani.