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di Carlo Nordio

Il Messaggero, 19 marzo 2022

Con una risoluzione quasi unanime - unica astenuta la Russia - il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha deciso di istituire “relazioni formali e stabili” con il nuovo regime afgano. Anche se nel testo la parola “talebani” non compare mai, il suo intento è chiaro, ed è stato spiegato da Mona Juul, rappresentante permanente della Norvegia: si tratta di incentivare la missione di assistenza delle Nazioni Unite in quel martoriato paese “per promuovere la pace e la stabilità, e aiutare il popolo afgano ad affrontare sfide e incertezze senza precedenti”. Con somma cautela, e nella soavità del linguaggio diplomatico, si tenta di convincere quei ruvidi governanti ad assicurare i minimi diritti umani.

La notizia non sarebbe granché, se non intervenisse nel bel mezzo del conflitto ucraino. In effetti il ruolo dell’Onu non è stato finora corrispondente alle aspettative dei suoi creatori, come non lo era stata la Società delle Nazioni, e nemmeno i vari tribunali che da Norimberga in poi si sono cimentati nel giudicare i criminali di guerra. I vari organismi sovranazionali, che da sempre i filosofi auspicano per garantire, come progettava Kant, una pace perpetua, urtano contro le ferree leggi della storia enunciate da Tucidide: ogni Stato persegue - ove possibile - la politica dell’utile e della forza. Il discorso del 21 febbraio indirizzato da Putin agli ucraini e al mondo, è lo stesso che gli Ateniesi rivolsero ai Meli duemilacinquecento anni fa, e che Hitler pronunciò sui Sudeti poco prima dell’accordo di Monaco nel 1938.

E l’unico modo per opporvisi è quello delle armi e del coraggio. Se la Russia ora comincia a parlare di negoziati, è perché l’eroico popolo ucraino sta combattendo con il vigore dell’aggredito e con i mezzi forniti dagli amici. Chi crede che esista un’alternativa alla resistenza armata non è solo ignorante della storia: è un ingenuo che confonde la pace con la resa, e la virtù con la viltà. La nostra stessa Costituzione, che non eccede di militarismo, proclama che la difesa della Patria è “sacro dovere del cittadino”. Se vogliamo estendere questo nobile principio agli ucraini, dobbiamo anche metterli in condizione di realizzarlo. E per fortuna, nonostante le omiletiche litanie di alcuni neutralisti equidistanti, è quello che stiamo facendo.

Ma perché allora la risoluzione dell’Onu può aver importanza nell’attuale conflitto? Per la semplice ragione che l’Onu, da sempre impotente nell’evitare le guerre, è spesso stata utile per farle finire, quando la situazione militare si presentava in uno stallo insolubile. Può cioè essere uno strumento di mediazione quando nessuna delle parti è in grado di vincere, e tantomeno ammettere di perdere. In Ucraina infatti la situazione sta per diventare un misto della Corea del 1952 e dell’Afghanistan degli anni ‘80. Un’ invasione russa che sembrava un blitzkrieg si è rivelata una logorante guerra, se non di posizione, certamente di attesa.

Pare che Putin abbia impiegato quasi tutte le truppe disponibili, che sia a corto di carburante e di munizioni, che il morale dei suoi soldati stia precipitando e che un’impreparazione logistica abbia fatto impantanare i suoi blindati in colonne bersagliate dall’alto dai droni e dai lati dalla guerriglia. Anche se il satrapo del Cremlino avanzasse di qualche decina di chilometri non risolverebbe la situazione, anzi la peggiorerebbe: perché allungherebbe le linee dei già scarsi rifornimenti ed esporrebbe le truppe, così assottigliate, agli attacchi dalle retrovie. Putin non può ritirarsi, perché perderebbe la faccia, il posto e forse la vita, ma nemmeno può controllare un paese che non ha occupato neanche per un terzo. In altre parole, si è cacciato in un vicolo cieco.

Ma l’Occidente non sta molto meglio. Scartando le due ipotesi quasi metafisiche che i russi se ne vadano senza condizioni, o che, all’opposto, ricorrano alle armi nucleari, l’alternativa sarebbe di trovarsi ai propri confini una sorta di Afghanistan con costi insopportabili in termini umani, etici, economici e militari. L’idea che si possa assistere per mesi o per anni a eccidi, agguati e rappresaglie alle porte di casa, non è proprio concepibile. E quindi una soluzione va trovata. È vero che nel frattempo i combattimenti continuano. Ma questo è sempre accaduto, da Panmunjon per la Corea all’Avenue Kleber per il Vietnam. In vista di un accordo, le parti cercano sempre di arrivarci nella massima posizione di forza.

I vari soggetti, pubblici e privati che si sono offerti come mediatori, francesi, turchi, israeliani, tedeschi e forse anche cinesi sono, o appaiono agli interlocutori, tutti interessati. L’Onu, al contrario, non lo è. E non lo è proprio per la sua debolezza, per la sua incapacità di impedire i conflitti, per la sua inesistente deterrenza militare, e per le sue aperture quasi spregiudicate ai governi più ignobili. Nessuno può sospettare di retropensieri imperialistici un organismo che instaura “relazioni formali e stabili” persino con i talebani. Ma proprio per questa sua neutralità disarmata può costituire un terreno finale non di scontro, ma di onorevole e necessario compromesso.