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di Emanuele Giordana

Il Manifesto, 16 agosto 2023

Sanzioni occidentali e blocco dei conti. Secondo l’Onu, la metà della popolazione ha fame e rischia la morte per inedia. Criticare i Talebani è un esercizio facile vista la natura del regime: negazione dei diritti di genere e della libertà di stampa, esclusione dal governo delle minoranze, esecuzioni capitali. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’ex primo ministro britannico Gordon Brown, che chiede alla Corte penale internazionale di intervenire sul trattamento riservato dai Talebani alle donne e alle ragazze, trattamento che considera un crimine contro l’umanità. Un esercizio più complesso però è quello di capire se anche i Paesi che hanno perso la guerra afghana non abbiano qualche responsabilità nella catastrofica situazione di un Paese sprofondato nella miseria e nella fame. Una piaga che va ben oltre le giuste accuse sui diritti ma che non sembra tener conto del primo dei diritti in assoluto: quello di potersi nutrire per sopravvivere.

Non sono cose nuove: durante l’occupazione a guida Nato, uno studio delle Nazioni unite del 2010 rilevava che il 36% della popolazione viveva in assoluta povertà, percentuale che raggiungeva nel 2018 il 54%. Ma dall’agosto di due anni fa percentuale è andata aumentando, superando largamente i quattro quinti della popolazione afghana, siano donne, uomini, bambini o anziani.

Già nel marzo 2022, Achim Steiner, a capo del Programma di sviluppo Onu (Undp), sosteneva: “Alla fine dell’anno scorso (2021) abbiamo rilevato che circa il 97% degli afghani potrebbe vivere in povertà entro la metà del 2022 e, purtroppo, quel numero viene raggiunto più velocemente del previsto”. Secondo il Programma alimentare mondiale, su una popolazione di 41 milioni di persone, oltre 15 milioni (più di un terzo) vive un livello di “acuta insicurezza alimentare” e quasi tre milioni “di insicurezza di emergenza”. Modi eleganti per dire che nel Paese milioni di persone hanno fame e che quasi la metà degli afghani non ha da mangiare. Molti rischiano la morte per inedia. Tutta colpa dei Talebani?

Prima dell’agosto di due anni fa, il bilancio statale afghano si sosteneva per la maggior parte su denaro esterno fornito dai Paesi della coalizione a guida Nato. Aiuto che non c’è più. Anche la cooperazione, bilaterale o attraverso l’Onu e le ong, si è contratta (a oggi l’appello delle Nazioni unite per il 2023 è stato finora finanziato per meno del 15%). Sanzioni e isolamento fanno il resto. Si potrebbe forse dire che i Talebani se lo meritano. Ma i vertici hanno sempre la scodella piena. Il resto degli afghani no.

C’è infine un terzo elemento particolarmente odioso e per lo più taciuto: il congelamento delle riserve sovrane del Paese, un fattore critico nel crollo dell’economia e del settore bancario. Sono poco più di nove miliardi di dollari che la Banca centrale afghana (Dab) aveva messo in sicurezza all’estero e di cui ora non può tornare in possesso. Soldi del governo? No, soldi di cittadini afghani coi quali sarebbe possibile fare un commercio con l’estero ora ridotto al lumicino. Il blocco equivale anche a una drastica riduzione del circolante: la moneta si consuma ma non riesce nemmeno a essere sostituita. Per un Paese come il nostro, 10 miliardi non sono tanti soldi ma per l’Afghanistan sì. Per capirne il valore: lo Sri Lanka è fallito perché non aveva soldi per ripagare gli interessi di un debito complessivo da 50 miliardi di dollari.

Poche voci si sono levate a difesa del diritto legale della Dab, denunciando quella che viene definita una nuova “guerra economica” e che forse potremmo anche bollare come una vendetta consumata fredda per aver perso la guerra: sette miliardi sono bloccati negli Usa. Gli altri nelle banche europee. Bloccati da chi ha perso la guerra contro un esercito di straccioni in ciabatte e kalashnikov che ha ingannato analisti, spie e militari di alcuni tra gli eserciti più tecnologicamente avanzati del primo Mondo. Apparentemente qualcosa è stato fatto: il 14 settembre 2022, Washington e Berna hanno annunciato il lancio di un Fondo afghano in Svizzera costituito da 3,5 miliardi di dollari dei sette nella pancia americana. Ma a oltre un anno di distanza, nessuna delle risorse apparentemente stanziate “a beneficio del popolo afghano” è stata usata per ricapitalizzare la Dab. I soldi restano fermi, la malnutrizione avanza e le bocche restano cucite come le casseforti delle banche.

Si potrebbe persino aggiungere che l’estrema radicalizzazione dell’Emirato talebano si deve forse anche a questa condizione di patente ingiustizia. Quando il gatto è stretto in un angolo e teme per la sua vita, soffia e rizza il pelo: non diventa più mansueto. Che questo sia vero o meno, l’ingiustizia resta e a pagarla sono le persone che da oltre vent’anni - donne, uomini, anziani e bambini - continuiamo a sostenere di voler difendere.