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di Barbara Stefanelli

Corriere della Sera, 13 gennaio 2023

Non lasciamo che le organizzazioni umanitarie chiudano. L’isolamento dell’Afghanistan è l’obiettivo dei talebani. Il 2022, è stato scritto, si è rivelato l’anno della riscossa della democrazia. L’anno del cigno bianco, colore geneticamente prevedibile e in teoria scontato, eppure quasi inatteso dopo il nero della pandemia e della guerra. Era annunciato un altro inverno nella “lenta recessione” democratico-liberale e invece, a sorpresa, le democrazie - forti delle loro dinamiche interne di scambio e confronto, più che espressione di un sistema uniforme con la D maiuscola - hanno dimostrato di saper combattere. Da Kiev al Brasile di Lula, dal voto novembrino di metà mandato negli Stati Uniti fino al movimento della gioventù iraniana contro la teocrazia degli ayatollah. Se questo è vero (siamo andati meglio del previsto, siamo più efficaci delle autocrazie, i nostri valori non sono sacchi vuoti), come reagire di fronte a quanto sta accadendo in Afghanistan?

L’inquadratura torna al Ferragosto 2021: al ritiro di americani ed europei, all’avanzata fulminea delle milizie talebane nelle strade svuotate dall’esercito “regolare” d’improvviso inerte, smaterializzato dopo 20 anni di addestramenti militari ed esercizi di controllo del territorio. Nei giorni successivi, ecco i cortei delle donne nelle città principali: senza velo, con i pugni chiusi e i cartelli scritti a mano, incredule davanti al muro ricomposto degli uomini barbuti, armati di kalashnikov, sordi dietro gli occhiali da sole. Una rapida sequenza di stagioni più tardi, trascorse come un soffio da questa parte del mondo, il regime - che aveva promesso moderazione durante i negoziati chiusi nel 2020 con l’accordo di Doha - ha vietato alle ragazze gli studi superiori. E ora ha negato al personale femminile la possibilità di lavorare nelle organizzazioni umanitarie. Che vuol dire: posti di lavoro perduti a decine di migliaia e nessuna chance - per operatori esclusivamente maschi - di raggiungere le donne in difficoltà in un Paese spezzato dall’apartheid.

L’interrogativo è sempre lo stesso: che fare? La prima tentazione è quella di guardare altrove: c’è un conflitto in Europa e non si attenua la crisi economica che piega le nostre famiglie più esposte. La seconda è quella di imbracciare la mozione dello sdegno con parole così altisonanti da non percepire più nulla, neppure l’eco dei dubbi di chi sta sul campo e vorrebbe restare. Perché il punto è: se rispondiamo agli editti dei Talebani con la sospensione dei programmi di aiuti, chi finiremo per favorire? Le bambine alle quali vorremmo guardare come avanguardia di cambiamento? O il regime che da sempre aspira all’isolamento, in una condizione di pacificazione tribale? Le ex scolare, costrette a rientrare in casa a tessere tappeti, con il filo incandescente della nostra indignazione non riusciranno a cucire neppure mezza frangia al disegno del loro destino.

Se le democrazie davvero stanno tenendo testa alla rete dei sovranisti, dei fanatici, degli illiberali, è il momento di mettere giù un piano comune a più Paesi per sostenere dal basso la popolazione, scavalcando i rami del potere sparsi tra le ville e i palazzi di Kabul. Vanno sostenuti gli sforzi delle Nazioni Unite che cercano di far leva sui ministri meno estremisti e quelli delle Ong che affrontano i signori locali per aver accesso ai bisognosi. Avrà ancora più senso finanziare i programmi che tengono aperte scuole private per le studentesse. E dovremo riflettere su come non cancellare una rete diplomatica minima affinché resti acceso uno sguardo dentro i confini. Tutto questo non significa riconoscere i talebani e la loro ingiusta legge ispirata alla sharia, bensì provare a non rassegnarsi a un’altra ritirata da un Afghanistan tornato lontanissimo. Abbandonare tra i rovi della storia le cause che abbiamo sposato con impeto e ragione, sacrificando uomini e donne, renderà anche noi più vulnerabili.