di Francesca Mannocchi
La Stampa, 15 agosto 2022
Un anno fa i talebani prendevano Kabul, restauravano il terrore e cancellavano i diritti civili. Le donne non studiano e scompaiono dalla vita pubblica, metà della popolazione soffre la fame.
“Siamo stanche di essere discriminate, resteremo qui per riavere i nostri diritti”. È la vigilia del primo anniversario della presa del potere dei talebani in Afghanistan, i video che arrivano da Kabul mostrano decine di donne afghane tornate in strada a chiedere pane e libertà. Hanno sfidato i divieti fino a raggiungere il ministero dell’Istruzione dove i talebani hanno aperto il fuoco, sparando in aria per disperdere le donne e arrestando dieci tra giornalisti e operatori che seguivano la manifestazione.
Un’istantanea che ricorda al mondo cosa siano stati gli ultimi dodici mesi per i cittadini e le cittadine afghane: l’intervallo tra la caduta di Kabul che ha scosso il mondo e il lento oblio che ha portato alla fame venti milioni di persone.
Kabul, un anno fa - Il 15 agosto 2021 cade Kabul e insieme alla capitale afgana cadono le illusioni di vent’anni di guerra e miliardi di dollari spesi in aiuti. Le immagini di quei giorni sono nella memoria di ognuno di noi: i talebani che in dodici giorni accelerano l’offensiva iniziata in primavera conquistano una dopo l’altra le province del Paese fino ad arrivare, senza incontrare resistenza, a presidiare le strade di Kabul. Mancavano due settimane al definitivo ritiro delle truppe statunitensi dal Paese.
I funzionari della Repubblica afghana cominciavano a organizzare la fuga di uomini e capitali da settimane, da quando in primavera - confermati gli accordi di Doha tra i talebani e l’amministrazione statunitense - era chiaro a molti che la domanda non era se i talebani sarebbero arrivati a riconquistare il Paese, ma quando lo avrebbero fatto.
Così, quando il 14 agosto i talebani erano alle porte della città, mentre le ambasciate organizzavano ponti aerei dalla Green Zone all’aeroporto, la gente si è riversata in strada. Incredula, spaventata, tradita. C’erano quelli che ricordavano il primo emirato islamico (1996-2001) e non volevano riviverlo e quelli che non volevano far ricordare il secondo Emirato - che era già lì, in strada - ai propri figli e soprattutto alle proprie figlie.
L’aeroporto Hamid Karzai è diventato in poche ore la cronaca di un fallimento, della sbalorditiva assenza di strategia degli Stati Uniti e degli alleati che non avevano previsto l’annunciato ritiro delle truppe con la capitale tornata in mano ai talebani.
Solo tre mesi prima, a giugno del 2021, funzionari americani avevano affermato che Kabul sarebbe caduta in sei, massimo dodici mesi dal ritiro statunitense. Invece il Paese è capitolato in pochi giorni, i talebani sono entrati in città, hanno occupato il palazzo presidenziale e i giorni che separavano la conquista di Kabul dal 31 agosto sono diventati il prologo di una strage annunciata che ha portato all’attentato suicida del 26 agosto. Morirono duecento persone, tra le migliaia ammassate lungo i muri perimetrali dello scalo nel tentativo disperato di raggiungere gli ultimi voli di evacuazione.
Così mentre le sedi diplomatiche esfiltravano il personale, mentre l’ex presidente Ashraf Ghani fuggiva senza una parola per il suo popolo, salvando famiglia e denaro, chi aveva lavorato e creduto per la Repubblica cercava un nascondiglio per paura di essere braccato e giustiziato, o cercava la fuga. Morivano così gli afghani coi talebani in strada e gli occidentali in fuga, morivano aggrappati alle ali degli aerei in decollo, come Fada Mohammed, un giovane dentista morto il 16 agosto, i cui resti sono stati ritrovati giorni dopo a dieci chilometri dall’aeroporto.
In pochi giorni Kabul ha cambiato faccia. Sono comparse le bandiere degli studenti coranici, sono state rimosse quelle della Repubblica afghana, è sparita la musica, i cartelloni pubblicitari, sono stati rimossi i volti delle donne nelle vetrine dei negozi, pian piano sono sparite anche le donne.
Coperte dai veli, dai burqa, dai divieti, dalla paura. “Assicuriamo alla comunità internazionale che non ci saranno discriminazioni contro le donne”, aveva detto il portavoce Zabihullah Mujahid durante una conferenza stampa già il 17 agosto. “Che i loro diritti saranno rispettati, ma entro le strutture che abbiamo”.
L’ambiguità delle parole di garanzia di Mujahid “entro le strutture che abbiamo”, sarebbe presto diventato l’alibi della segregazione femminile. Il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, restituito a poche settimane dalla presa di Kabul, era per le donne afghane il preludio al peggiore degli scenari possibili: la loro scomparsa dalla vita pubblica.
Il corpo delle donne - La comunità internazionale ha isolato immediatamente il nuovo regime di Kabul. I talebani sapevano che la partita del riconoscimento della loro autorità si sarebbe giocata sui diritti delle donne e hanno millantato per mesi un’apertura che non è mai arrivata, anzi.
A gennaio Zabihullah Mujahid è tornato a parlare di istruzione femminile, non per rassicurare la comunità internazionale e le famiglie afghane, ma per prendere tempo: “È una questione di capacità, spero che le scuole possano riaprire a marzo perché noi - dice ai giornalisti che lo incalzavano sull’accesso alle scuole per le ragazze - non siamo contrari all’istruzione”.
Ma quando il 23 marzo - primo giorno del nuovo anno scolastico afghano - le ragazze sono uscite di casa con gli zaini in spalla hanno trovato le scuole aperte per i ragazzi ma non per loro. È stato chiaro il senso delle parole di Mujahid, le strutture che “avevano a disposizione” non sarebbero mai state adeguate alla presenza femminile.
Da maggio alle donne afghane è stato imposto l’hijab, hanno l’obbligo di coprirsi il viso quando sono in pubblico, è loro proibito fare viaggi a lunga distanza da sole e possono visitare i parchi pubblici della capitale solo nei giorni in cui gli uomini non sono ammessi, ma secondo la polizia religiosa resta preferibile, comunque, per le donne “rimanere in casa che uscire in strada” anche negli orari in cui sarebbe loro concesso. È stato ripristinato il requisito del mahram, un familiare di sesso maschile che funga da accompagnatore, la cui presenza inevitabilmente influenza ogni aspetto della vita sociale femminile, dalla possibilità di fare la spesa, quella di occuparsi dell’assistenza sanitaria e alimentare delle loro famiglie. A quella di spostarsi, o lavorare, cioè contribuire alla sopravvivenza di famiglie che in pochi mesi sono precipitate nell’abisso di una crisi economica senza precedenti. Una povertà tale che un numero sempre maggiore di ragazzine è esposto al rischio di matrimoni precoci. Bambine promesse, cedute o vendute che sono diventate merce di scambio per famiglie che non sanno più come sfamarsi o come ripagare i debiti.
Le sanzioni, la crisi economica, la fame - Quando i talebani hanno preso il potere, gli Stati Uniti e le altre potenze mondiali che non hanno riconosciuto il loro come governo legittimo dell’Afghanistan e hanno posto il Paese sotto sanzioni, congelato oltre 9 miliardi di dollari in beni appartenenti alla Banca centrale afghana e la comunità internazionale ha ridotto gli aiuti, nonostante tutti i Paesi donatori fossero consapevoli che nell’ex Repubblica islamica dipendesse dagli aiuti esteri che finanziavano il 75 per cento della spesa pubblica. I governi donatori, guidati dagli Stati Uniti, hanno incaricato la Banca mondiale di tagliare circa 2 miliardi di dollari all’assistenza internazionale esterna che la banca gestiva attraverso l’Afghanistan Reconstructive Trust Fund (Artf) per pagare gli stipendi di milioni di insegnanti, operatori sanitari e altri lavoratori statali.
Il risultato è che i salari non vengono pagati da mesi, i mercati sono pieni di merce che gli afghani non possono comprare, la classe media del Paese è scomparsa e alle donne - non potendo lavorare - non resta che elemosinare o sperare che qualcuno voglia una delle figlie in cambio di denaro.
La disoccupazione è aumentata vertiginosamente, le importazioni sono crollate e la povertà ha raggiunto livelli quasi universali, un’epidemia di colera ha colpito la parte meridionale del Paese mentre la fame, aggravata dal secondo anno di siccità, è diventata un’emergenza per milioni di famiglie. Secondo i dati delle Nazioni Unite, oggi in Afghanistan 20 milioni di persone, approssimativamente metà della popolazione - stanno soffrendo il livello 3 o 4 di insicurezza alimentare, che corrispondono allo stato: crisi o emergenza. Il Programma Alimentare Mondiale ha riferito poche settimane fa che decine di migliaia di persone in una provincia, Ghor, erano cadute in una malnutrizione acuta di livello 5 (“catastrofica”), il livello che precede la carestia.
Secondo la Croce Rossa in un anno il prezzo dell’olio è aumentato del 55%, quello della farina del 68%, il 70% delle famiglie afghane non è in grado di provvedere ai bisogni primari, 3 milioni e mezzo di bambini sono a rischio di malnutrizione. Da mesi le organizzazioni umanitarie lanciano allarmi sulla vastità della crisi e sulla causalità tra la fame e lo choc economico che vive il Paese. Coi soldi afghani bloccati dalle sanzioni il Paese vive il paradosso tragico e spietato per cui nei mercati e nei negozi c’è cibo ma non ci sono soldi per comprarlo.
Una crisi economica che, secondo l’International Rescue Committee “rischia di generare una crisi umanitaria che potrebbe portare a più morti di 20 anni di guerra”.
Il direttore nazionale afghano di Save the Children ha dichiarato: “Non ho mai visto niente di simile. Trattiamo ogni giorno bambini spaventosamente malati che da mesi non mangiano altro che pane. I genitori devono prendere decisioni impossibili: quale dei loro figli daranno da mangiare? Mandano i figli a lavorare o li lasciano morire di fame?”.
Era metà febbraio, erano passati solo sei mesi da quando i talebani avevano riconquistato il Paese, il mondo (leggasi i donatori) di lì a poco avrebbe sostituito l’emergenza afghana con quella ucraina. I destini degli afghani, delle afghane hanno cominciato così a finire nell’ombra.
Il dilemma occidentale sull’Afghanistan - Il destino delle donne afghane è strettamente intrecciato alla crisi economica aggravata dalle sanzioni. È stato immediatamente chiaro che il braccio di ferro sulle sanzioni avrebbe avuto come merce di scambio il riconoscimento dei diritti delle donne. Lo strumento economico è sembrato all’Occidente il modo più semplice per cercare di fare pressione sui talebani, la capacità dell’Emirato di dimostrarsi inclusivo, capace di garantire l’istruzione femminile sarebbe stata la leva per alleggerire le sanzioni economiche e facilitare di nuovo l’ingresso degli aiuti umanitari così necessari alla sopravvivenza del Paese.
Il braccio di ferro però si è trasformato in un dilemma morale che dopo un anno non solo non ha raccolto i risultati sperati, ma ha dimostrato (una volta ancora) l’assenza di strategia occidentale per far fronte alla catastrofe umanitaria che ha contribuito a generare. Le donne sono rimaste senza diritti, costrette al burqa, alla vita domestica, all’ignoranza, i talebani sono rimasti al potere, ma puniti dalle sanzioni economiche.
“Quello che sta succedendo in questo momento è che 38 milioni di persone stanno soffrendo perché poche centinaia sono al potere”, ha detto Samira Sayed Rahman, coordinatrice della comunicazione per l’International Rescue Committee (IRC), fotografando la crisi del Paese ma anche quella dell’Occidente. “Il popolo afghano sta vivendo un incubo, vittima sia della crudeltà dei talebani che dell’apatia internazionale”, ha detto Fereshta Abbasi, ricercatrice afghana di Human Rights Watch. “Il futuro dell’Afghanistan rimarrà cupo a meno che i governi stranieri non si impegnino più attivamente con le autorità talebane mentre le esercitino vigorosamente pressioni sul rispetto dei loro diritti”.
Gli stessi talebani con cui gli Stati Uniti hanno firmato un accordo di pace nel febbraio 2020 per garantire il ritiro delle proprie truppe in condizioni di sicurezza, gli uomini che sono ed erano nelle liste dei terroristi internazionali durante i colloqui a Doha erano presentabili - anzi necessari - sono oggi impresentabili e dunque sanzionati. Prima da loro dipendevano gli attentati che avrebbero messo in pericolo l’incolumità delle delegazioni e delle truppe occidentali, oggi da loro dipende la vita di milioni di cittadini afghani.
Per questo le organizzazioni internazionali chiedono lo sforzo di “impegnarsi con le autorità talebane”. È il vero dilemma dell’Occidente oggi, in Afghanistan. È il solo modo di salvare uomini, donne e bambini che rischiano di morire di fame.