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di Franco Insardà

Il Dubbio, 30 ottobre 2023

La figlia dello statista da anni gira l’Italia per raccontare l’esperienza degli incontri tra vittime e protagonisti della lotta armata. “Io non dimentico cosa mi è successo e non lo considero meno terribile di allora. Dopo aver stretto la mano agli artefici di quel dolore, però, dopo aver potuto chiedere loro “perché l’hai fatto?” so che tutto è tornato al suo posto. Siamo seduti uno vicino all’altro, siamo amici, ci preoccupiamo per le famiglie altrui: c’è stata una frattura ma oggi è necessario che sia così. Questa per me è il senso profondo della giustizia.

Pensavo fossero mostri, ho scoperto che anche loro sono persone nella mia mente loro sono dei mostri senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati. Ma poi ha scoperto in loro un dolore infinitamente peggiore del mio che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia. Incontrare chi ha fatto del male è un atto di amore verso se stessi, perché trovarsi faccia a faccia con chi ha compiuto atti tremendi di violenza è l’unico modo possibile per uscirne”. Sono le parole che Agnese Moro ripete pubblicamente quando viene invitata a parlare della sua esperienza.

Un cammino iniziato nel 2007 da un gruppo di persone, sia vittime sia membri della lotta armata, guidati dal padre gesuita Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia all’Università Cattolica di Milano e dalla sua collega Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale. Un percorso che è stato prodomico per la giustizia riparativa, della quale il professor Ceretti può essere considerato il padre e spiega spesso: “Nella comprensione della giustizia le vittime non erano considerate: ci si concentra solo sul colpevole. Si ignorava il vissuto della vittima, imprigionata in un eterno presente che alimenta l’odio. L’odio dà un ruolo a sé e al nemico. La giustizia riparativa cerca di liberare vittime e carnefici dai loro inferni”.

“Quando ho ricevuto la proposta di padre Guido inizialmente ho rifiutato - racconta Agnese Moro nei suoi frequenti incontri - ma mi sono resa conto che lui mi veniva incontro per qualcosa di diverso. Si era accorto del mio dolore e in 31 anni nessuno l’aveva mai fatto. Alla fine dei processi ero soddisfatta perché quelle condanne stabilivano che la violenza non è uno strumento legittimo per affermare un ideale ma dal punto di vista personale non avevano forma risarcitoria. Io non stavo meglio sapendo che un altro soffriva”. Sono quelle che Moro definisce le “scorie radioattive di un’ingiustizia piccola o grande che sia” che restano addosso sia alla vittima sia all’autore del reato.

Quel percorso doloroso e silenzioso è diventato nel 2016 “Il libro dell’incontro” che racconta il cammino di Agnese Moro, Giovanni Ricci, figlio di uno degli agenti uccisi in via Fani il 16 marzo 1978, di altre vittime e di alcuni ex militanti della lotta armata: da Valerio Morucci ad Adriana Faranda, da Maria Grazia Grena a Franco Bonisoli. Proprio da quest’ultimo ha preso spunto Angelo Picariello, quirinalista di Avvenire, per scrivere “Un’azalea in via Fani”, che ha “il merito di aver avuto il coraggio di alzare il velo sui conflitti della nostra storia”, come disse Agnese Moro presentandolo.

Parlando degli incontri con gli ex terroristi la figlia dello statista dice: “Guardi in faccia dei vecchietti come me, cadenti o meno, ognuno ha sul viso la storia di quello che gli è successo e sono storie terribili. Perché quando hai pensato di salvare il mondo, ma alla fine scopri che hai ucciso solo delle brave persone che non possono tornare indietro, e quella giustizia che volevi l’hai solo tradita è davvero terribile. Ecco perché è importante fare un percorso insieme”. E Agnese Moro ribadisce che suo padre avrebbe approvato questo cammino di riconciliazione e il fatto che “queste due realtà “ex giovani” feritesi reciprocamente, possano oggi incontrarsi e sanare qualcuna di quelle ferite io sono certa che per lui sia motivo di contentezza”.

Come ricorda spesso Nicodemo Oliverio, allievo di Moro alla cattedra di diritto e procedura penale alla Sapienza proprio nell’anno accademico del rapimento “l’ultima lezione, il 15 marzo 1978, fu proprio sulla rieducazione dei detenuti. Senza dimenticare i suoi dubbi sull’ergastolo, una posizione che restituisce appieno la contemporaneità del pensiero di Moro. E non sfugge a nessuno come l’articolo 27 della Costituzione sia stato ispirato proprio da lui”.

La figlia dello statista da anni porta in giro per l’Italia la sua esperienza, insieme con altre vittime ed ex terroristi, e dice: “Ci sono tante persone che vengono non solo per capire come mai io, Giovanni Ricci e altri familiari delle vittime siamo insieme agli ex terroristi, ma tanti anche per curare la loro memoria, feriti per aver tifato per la morte di mio padre e lo raccontano vergognandosi di se stessi, altri che erano bambini e hanno vissuto quel periodo avendo paura. È stato sorprendente che dopo tanti anni qualcuno venisse a interessarsi del mio dolore”. E Giovanni Ricci confida che quando ha incontrato Morucci gli ha detto: “La tua croce è più grande della mia”.