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di Giuseppe Salvaggiulo

La Stampa, 23 febbraio 2023

L’ex presidente dell’Anm: “Se è riservato o meno lo decide un giudice. Rapporti compromessi per la riforma? Non sia una spada di Damocle”. “Le parole di Nordio mi sembrano inesatte dal punto di vista tecnico-giuridico e inopportune, per essere generosi, da quello politico”, dice Eugenio Albamonte, pm romano, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e oggi segretario di Area, principale corrente progressista delle toghe.

Perché inesatte?

“Non è il ministro che decide se un atto è riservato o no. Lo stabilisce la legge, che delinea per ogni atto pubblico natura e regime di divulgabilità a seconda della funzione”.

In questo caso, però, parliamo di atti dello stesso ministero della Giustizia…

“Il discorso non cambia. Nemmeno per un atto formato nel ministero, il ministro può sostituirsi alla legge”.

Il ministro, però, ha ripetutamente, e in Parlamento, spiegato che per lui gli atti passati da Delmastro a Donzelli non erano segreti…

“Il ministro ha interpretato la legge in un certo modo. È una sua facoltà. Ma quando la questione della riservatezza di un atto diventa elemento costitutivo di reato, l’interpretazione ultima della legge spetta all’autorità giudiziaria”.

Ma è giusto che l’interpretazione di un pubblico ministero prevalga su quella del governo e del Parlamento?

“Il pubblico ministero in prima battuta. Ma poi, sia che chieda l’archiviazione sia che ravvisi un reato da perseguire, sarà un giudice, se non più di uno, a dare l’interpretazione definitiva. Questo è un sistema equilibrato. Altrimenti ciascuno si fa la legge per sé. Vale per tutti, ministro compreso”.

Perché contesta le frasi di Nordio sul piano politico?

“Per una ragione di inopportunità. Come al solito, si parte da un apparente riconoscimento della sfera di autonomia delle decisioni dell’autorità giudiziaria, che però diventa un attimo dopo una formula di stile”.

In che senso?

“Nel senso che poi si esprime un sillogismo che lo contraddice e annulla: io sono il ministro, l’atto è del ministero, io decido se è riservato, io decido se c’è reato”.

Con quali conseguenze?

“Il corollario sottinteso è: se l’autorità giudiziaria decide diversamente, questo è un problema”.

Che tipo di problema?

“Appunto. Poiché il ministro ha penetranti poteri sui magistrati, sia ispettivi sia disciplinari, se non specificata l’espressione ipotizza una attività di interferenza al punto da assumere connotati dal vago sapore intimidatorio”.

Non può trattarsi semplicemente di esplicitare un possibile conflitto tra poteri?

“Allora meglio specificare, uscire da un’ambiguità pericolosa quando chi parla ha poteri così rilevanti”.

Il ministro si è già esposto molto. Sarebbe imbarazzante una diversa valutazione da parte della magistratura…

“Come sempre c’è forte immedesimazione politica tra ministri e sottosegretari. Per evitare fraintendimenti, un self restraint sarebbe auspicabile, anche in termini di prudenza. Evitando di anticipare valutazioni di altri poteri”.

C’è un ulteriore problema nell’uso politico che si è fatto di questi atti?

“Non in questa fase. Prima il giudice deve valutare il regime di riservatezza. Poi eventualmente, se la violazione di segreto è aggravata da finalità come profitto per sé o danno ingiusto per altri. Ma se non c’è reato, tutto ciò diventa questione politica, non giudiziaria”.

Questa vicenda inasprisce i rapporti governo-magistratura?

“Voglio pensare che non siano condizionati da una singola valutazione giudiziaria. Altrimenti governo e parlamento potrebbero usare la minaccia di riforme come una spada di Damocle”.