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di Chiara Dama

Corriere della Sera, 27 settembre 2022

Il tasso di chi si toglie la vita nel 2022 sarà il più alto del ventennio. La causa va cercata nell’enorme disagio delle condizioni detentive. Urgente incentivare le misure alternative e di recupero.

Sessantadue. Dietro a questa cifra ci sono le storie delle persone che si sono tolte la vita in carcere dal primo gennaio al 19 settembre di quest’anno. In neanche nove mesi è stata già superata la quota dei suicidi in cella di tutto il 2021.

A denunciato in un dossier l’associazione Antigone, impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti e delle garanzie del sistema penale. “I numeri di quest’anno generano un vero e proprio allarme, non avendo precedenti negli ultimi anni” si legge nel documento. Nel 2018 il tasso di suicidi ogni 10mila persone detenute era di 10,4 casi, sceso a 8,7 nel 2019 per poi risalire a 10 nel 2020 (il decimo più alto del continente secondo l’ultimo rapporto disponibile del Consiglio d’Europa, riferito a quell’anno) e 10,6 nel 2021.

Nel 2022, considerato il trend dei decessi in aumento, potrebbe toccare il valore più alto dell’ultimo ventennio. In Italia i detenuti si uccidono 16 volte in più rispetto ai liberi cittadini. Ma “il carcere non è una condanna a morte” ha ricordato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Le morti in prigione si possono prevenire. “In presenza di fragilità e segni di allarme - spiega Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione - occorrono degli interventi mirati di supporto e accompagnamento, per diminuire il senso di abbandono e risvegliare gli stimoli verso la vita. Oggi, invece, le situazioni a rischio vengono gestite in un’ottica di sicurezza, disponendo una sorveglianza a vista continua.

Ma la rigida logica del controllo non è la soluzione e va appunto superata con quella flessibile dell’ascolto e dell’accoglienza della persona detenuta da parte degli operatori”. L’impatto dell’arresto e della carcerazione è traumatico.

“Avere la possibilità di sentire i familiari nei momenti di maggiore angoscia - sottolinea Miravalle - può essere di vitale importanza, allontanando il detenuto dall’intento suicidario. Per questo in estate abbiamo lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, in cui chiediamo di riformare il regolamento del 2000, che stabilisce una telefonata alla settimana di massimo dieci minuti, liberalizzando i colloqui telefonici nei casi in cui la persona possa contare su una rete sociale esterna e in assenza di particolari esigenze di sicurezza”.

Vista l’emergenza, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Carlo Renoldi ha messo a punto una circolare per adottare la videochiamate come strumento ordinario in aggiunta ai sei colloqui in presenza al mese concessi. I più giovani e di sesso maschile sono la categoria più colpita. L’età media dei suicidi avvenuti finora è di 37 anni. La maggior parte aveva tra i 30 e 39 anni, seguiti dai ragazzi tra i 20 e 29 anni. Solo otto i casi over 50.

Quasi la metà erano di origine straniera. Le case circondariali di Foggia e San Vittore a Milano sono gli istituti con più decessi registrati al momento. “Il suicidio nella quasi totalità dei casi - chiarisce Giuseppe Nese, coordinatore della rete regionale di sanità penitenziaria della Campania - non è mai l’espressione di una patologia psichiatrica e, pertanto, i comportamenti a rischio non vanno medicalizzati e trattati con psicofarmaci, né la persona che li manifesta va trasferita nella sezione psichiatrica del carcere.

Le scelte autolesive e suicidarle sono piuttosto da inquadrare come conseguenza delle condizioni detentive che determinano un disagio intollerabile. La pena non deve essere una punizione ma una rieducazione. Per prevenire i gesti estremi bisogna migliorare la qualità di vita ordinaria dei detenuti, offrendo attività che diano senso alle loro giornate e al loro futuro, dallo sport al lavoro, il teatro e lo studio, e che rispondano il più possibile alle esigenze e inclinazioni personali.

Per un padre che ha necessità di far campare i suoi figli e non vuole sentirsi un peso - fa un esempio Nese - sarà utile avere un impiego lavorativo. Come già accade in tanti altri Paesi europei, andrebbero poi allestite le cosiddette “camere dell’amore” per le relazioni sentimentali e sessuali”.

Altrettanto prioritario, esorta Nese, è “il monitoraggio dei momenti potenzialmente più stressanti, che potrebbero gettare la persona reclusa in un grave sconforto: dall’ingresso in carcere ai colloqui con i familiari, le reazioni in aula di giustizia e al rientro, la comunicazione di un lutto o di un evento drammatico che coinvolge amici e parenti, la separazione dal coniuge, la tendenza all’autoisolamento in sezione e all’aggressività verso gli altri.

Tutti gli operatori, compresi gli agenti, devono e possono cogliere i segnali di pericolo, non spetta soltanto al personale sanitario farlo”. L’attenzione costante per i traumi che si trova a vivere la persona detenuta è raccomandata anche dal piano nazionale di prevenzione al suicidio in carcere del 2017, che in una circolare dell’8 agosto il capo del Dap invita i direttori degli istituti ad applicare. La condizione degli spazi e del tempo all’interno del carcere è determinante dunque.

“Il suicidio - ribadisce Miravalle - è legato al malessere della struttura e al sovraffollamento. Su oltre 55mila reclusi, circa 10mila sono sottoposti al regime di 41 bis e di alta sicurezza per reati di criminalità organizzata, il resto è gente che ha alle spalle storie di marginalità sociale e povertà.

Per queste persone afflitte da fragilità la risposta doveva essere un welfare più forte e invece sono finite in galera. È fondamentale incentivare le misure alternative alla detenzione. Quelle 62 persone molto probabilmente fuori dal carcere non si sarebbero mai ammazzate”, conclude Miravalle.