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di Paola Balducci

La Discussione, 2 marzo 2024

Il fenomeno del sovraffollamento carcerario rimane una delle sfide più urgenti e complesse che il sistema penitenziario italiano è costretto ad affrontare quotidianamente. Con una popolazione detenuta che continua a crescere - siamo quasi a quota 60.000 persone private della libertà personale - e limitate risorse a disposizione, risulta fondamentale esplorare soluzioni efficaci e anche poco popolari per ridurre la pressione sulle carceri e garantire condizioni di detenzione umane e dignitose.

Da fin troppo tempo si spera in una riforma organica del sistema penitenziario e mentre il dibattito sul tema rimane vivo ed acceso, i dati che continuano ad arrivare dalle carceri non sembrano rappresentare una situazione in grado di poter ancora aspettare. In particolare, ciò che colpisce e fa sentire sconfitti tutti noi è l’emblematico dato relativo all’aumento dei casi di suicidio in carcere. Il detenuto sembra trovarsi in una situazione di isolamento, sentendosi fin troppo lontano sia dalle Istituzioni, non sempre disponibili a guardare con occhi attenti la realtà carceraria, che dall’affetto della propria famiglia, che magari non vede da tempo.

E poi vi è anche la paura del futuro, di ciò che sarà della propria vita una volta conclusa la detenzione, di non poter trovare un lavoro, non riuscendo a reinserirsi in società. In questo contesto, anche alla luce del principio della finalità rieducativa della pena sancito dall’art. 27 comma 3 della nostra Costituzione, non si comprende come non possano essere utilizzati istituti quali l’amnistia e l’indulto. Tali istituti sarebbero fondamentali per affrontare il problema del sovraffollamento carcerario e per promuovere un sistema penitenziario più umano ed efficiente, che possa anche porsi in contrasto con il fenomeno del panpenalismo che sembra ispirare il legislatore da fin troppo tempo.

Divenuti quasi un tabù nel nostro ordinamento - nonostante, è bene ricordare, siano previsti anche dalla nostra Carta Costituzionale all’art. 79 -tali provvedimenti potrebbero rappresentare una soluzione di certo non definitiva, ma rapida ed efficiente, al fine di ridurre la popolazione carceraria e di concedere al sistema esecutivo italiano una boccata d’aria.

Spesso presentati come un’endiadi, in realtà amnistia e indulto possiedono dei caratteri ben differenti. L’amnistia è volta ad estinguere il reato, facendo cessare anche l’esecuzione della condanna e delle pene accessorie, mentre l’indulto si presenta come un provvedimento di indulgenza a carattere generale volto ad estinguere in tutto o in parte la pena principale, che viene condonata oppure commutata in altra specie di pena consentita dalla legge.

Eppure, il “mostro a due teste” amnistia e indulto nel nostro ordinamento è stato relegato al passato, cercando quasi di chiuderlo nel dimenticatoio: si pensi solo che l’ultimo provvedimento di amnistia è stato concesso nel 1990, mentre l’indulto non è applicato dal 2006.

Da un lato, l’iter legislativo al fine della loro approvazione non è né agevole né di breve durata: come ci ricorda la nostra Carta Costituzionale, essi sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Se a ciò poi si aggiunge che indubbiamente amnistia e indulto non godano di particolare fascino nella maggior parte dell’opinione pubblica e non siano argomenti politicamente popolari, la strada verso la loro concessione appare sempre più in salita e tortuosa.

Tuttavia, sarebbe necessario un forte coraggio del legislatore volto proprio a percorrere questa strada, a ridare dignità e speranza a quanti si trovano in condizioni precarie e drammatiche negli istituti penitenziari, magari dopo essere stati condannati solo per reati minori o di scarsissimo allarme sociale.

Occorrerebbe difatti un approccio bilanciato, che tenga conto delle diverse implicazioni legali, sociali ed etiche coinvolte. Ciò richiederebbe un attento esame dei criteri e delle procedure per l’applicazione di tali misure, nonché un impegno continuo per garantire che i detenuti rilasciati siano adeguatamente supportati nel loro reinserimento nella società.

Non dunque un “liberi tutti”, come gli oppositori all’applicazione di tali istituti potrebbero obiettare, bensì dei provvedimenti calibrati, studiati, attentamente regolati, al fine di permettere al sistema carcerario italiano di svolgere la vera funzione che la Carta Costituzionale gli ha brillantemente attribuito: non unicamente di afflizione e pena, ma di rieducazione e recupero sociale, che in un contesto complicato come quello delle carceri italiane, sembra oramai essere perduto e compresso come i 60.000 detenuti che lo popolano.