sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Aurora Matteucci

Il Riformista, 2 aprile 2024

“Il penale quasi mai è la soluzione: tanto meno di fenomeni complessi come la violenza maschile contro le donne”. Con queste parole la prof. Tamar Pitch, ordinaria di filosofia e sociologia del diritto dell’Università di Perugia e Direttrice della Rivista Studi sulla questione Criminale, inizia la nostra conversazione. Professoressa nel suo recente lavoro, Il Malinteso della Vittima, in cui sono condensati anni di sue riflessioni sul c.d. “paradigma vittimario” lei critica il “femminismo punitivo”.

Perché?

“Per femminismo punitivo intendo quei movimenti che, in nome del femminismo, della libertà e tutela delle donne, chiedono l’introduzione di nuovi reati o l’innalzamento delle pene per reati già esistenti. Una visione che non condivido e che ha a che fare con la costruzione e diffusione, da 30 anni a questa parte, di un senso comune panpenalista. Un esempio: 30 anni fa è stato possibile approvare l’abolizione dell’ergastolo al Senato. Adesso non si potrebbe nemmeno parlare di attenuazione o abolizione del 41 bis o del c.d. ergastolo ostativo. É in atto un vero e proprio imbarbarimento politico e culturale. Penso all’ultimo pacchetto sicurezza, con cui di certo si sta facendo un grande salto di qualità in peggio. Ma questo è un trend che parte da lontano, come ho detto: si è progressivamente disinvestito sul piano delle politiche sociali a tutto vantaggio della repressione penale e amministrativa”.

La recente Legge Roccella, ad esempio, ha irrobustito le misure di prevenzione nei confronti di sospettati per reati di violenza di genere introducendo forme di “repressione amministrativa” con una diminuzione considerevole delle garanzie. Tornando al panpenalismo e al femminismo punitivo, lei ha anche scritto che un altro effetto collaterale di questa deriva è la costruzione di una visione manichea della società tra “perbene” e “permale” e al conseguente annullamento della complessità dei fenomeni sociali...

“Si certo: è un mettere tutto in orizzontale. Si ignorano le disuguaglianze e si divide la società tra buoni e cattivi, i quali ultimi vanno combattuti con tutti i mezzi, in primo luogo con il diritto penale”.

Il rischio è anche quello della riduzione della soggettività politica della donna, identificata solo come vittima…

“Sì. Penso a due campagne attuali portate avanti da una parte dei movimenti femministi internazionali: l’introduzione del reato universale di gestazione per altri e del regime ‘nordico’ per il controllo della prostituzione con l’incriminazione dei clienti che acquistano servizi sessuali. Le donne che vogliono fare la gestazione per altri e quelle che vendono servizi sessuali e che dicono di farlo volontariamente, vengono silenziate, ciò che dicono non conta, in quanto non “libere” giacché colonizzate dal patriarcato, dal capitalismo, e dunque prive di soggettività a meno che non si considerino vittime. Tutti questi movimenti per la liberazione delle donne che agiscono “parlando per le altre” acquistano in tal modo la loro legittimazione politica”.

A proposito del “parlare per altre” torno indietro, al 1996: la violenza sessuale diviene finalmente reato contro la persona e non più contro la morale. Ma quali e quanti compromessi accompagnarono questa legge?

“Quella per la modifica del reato di violenza sessuale fu una campagna molto lunga, iniziata nel 1979 con un Ddl scarno (disponeva quasi solo lo spostamento del reato dai delitti contro la morale ai delitti contro la persona, introducendo la procedibilità d’ufficio). Noi femministe della “seconda ondata” ritenevamo che non dovessero essere le donne a legiferare, specie con il penale, sui corpi delle altre donne ed eravamo contrarie alla procedibilità d’ufficio. Poi si è conclusa nel 1996. Il risultato ottenuto è uno slittamento dal “paradigma dell’oppressione” al “paradigma della vittimizzazione”. Dalla divisione della società in sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi, tipica degli anni 70 e 80, si sono riportati sulla scena i soggetti individuali, attraverso l’uso del potenziale simbolico del penale: autori e vittime. Un guadagno, da una parte, un rischio dall’altra: la sparizione del contesto sociale e culturale in cui gli uni e le altre vivono e attraverso cui interagiscono. Ciò si inserisce in un processo culturale più generale in cui emerge il “paradigma vittimario”: oggi, per avere voice, è necessario assumere lo statuto di vittime”.

Si parla molto, adesso, di costruire il reato di violenza sessuale attorno al consenso. Io vedo in queste proposte di riforma un rischio per le garanzie dell’imputato perché la ricostruzione processuale del consenso è complessa. Temo il ricorso a presunzioni...

“È una perplessità anche mia. Mi chiedo, però, anche come il non consenso possa essere dimostrato in un processo, senza riportare la vittima sul banco degli imputati. Ci sarebbe bisogno, al di là di nuove norme, di un profondo mutamento culturale della magistratura e dell’avvocatura evitando il ricorso alle modalità del noto “processo per stupro”.

Lei ha scritto che la violenza maschile contro le donne “è sistemica e sistematica”. Eppure, le pene aumentano, si erodono le garanzie, si gridano slogan che incitano persino alla castrazione chimica e le donne continuano a morire. Che fare, dunque?

“I femminicidi non sono aumentati. Non sono neanche diminuiti. Per carità, le donne che vengono ammazzate sono sempre troppe, anche se sono due. È una cosa orribile, ma non dobbiamo neanche gridare all’emergenza. Ormai si sono abbandonate le politiche sociali, ma soprattutto oggi, in questo clima “dio-patria-famiglia” sarebbe essenziale implementare risorse per la sanità pubblica, per la scuola pubblica. Queste sono le battaglie sociali e politiche da fare. Certamente una maniera per migliorare la situazione di donne a rischio è quella di potenziare le loro risorse culturali, sociali ed economiche”.