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di Alberto de Sanctis*

Il Riformista, 23 dicembre 2023

Disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: il nuovo art. 415 bis c.p. criminalizza la resistenza passiva organizzata da almeno tre detenuti con un comportamento non violento di disobbedienza civile. Già ci sarebbe da interrogarsi sulla necessità di introdurre un reato specifico per un fenomeno, quello delle sommosse violente in carcere, che potenzialmente si manifesta con la commissione di un’ampia serie di reati (tra gli altri: danneggiamenti, lesioni, evasioni). C’era forse un vuoto legislativo che doveva essere colmato per impedire ai detenuti di devastare gli istituti penitenziari? La risposta alla domanda, posta evidentemente in modo retorico, è scontata. Per l’ennesima volta il diritto penale simbolico prevale sulla ragionevolezza.

Meno scontata è la risposta che mi sento di dare ad un secondo ed inquietante interrogativo: è legittimo, come prevede il disegno di legge con il nuovo art. 415 bis codice penale, criminalizzare la resistenza passiva organizzata da almeno tre detenuti con un comportamento non violento di disobbedienza civile?

Potrei fare delle riflessioni esegetiche sull’inedita nozione penalistica di “rivolta”, credo per la prima volta protagonista di una norma penale incriminatrice. E già questa novità (la rivolta come reato) è - almeno dal punto di vista dell’attitudine culturale - un sintomo della volontà politica di ridisegnare i confini, almeno inframurari, della libertà di espressione del dissenso. Senza iperboli libertarie che rischiano talvolta di apparire come forme malcelate di vittimismo, questo non è affatto un bel segnale per la libertà di espressione del pensiero nel nostro Paese.

Mi limito a dire che se la nuova figura di reato ha la pretesa di rimanere nell’alveo della Costituzione certamente bisogna intendere per “rivolta” una sommossa contro l’ordine ed il potere costituito di natura violenta, ai danni di cose e persone. Ed allora diventa arduo incasellare in questa nozione un comportamento inerte e pacifico come quello di un gruppo di detenuti che si rifiuta di eseguire un ordine.

Proviamo ad immaginare una protesta non violenta in carcere, nata per manifestare indignazione contro il sovraffollamento e le condizioni igienico-sanitarie delle celle. I detenuti, in un numero pari o superiore a tre, potrebbero rifiutarsi di pulire e ordinare la camera, non adempiere agli obblighi lavorativi, persino rifiutarsi di fare la doccia. Trattasi di condotte che possono essere legittimamente prescritte dal regolamento penitenziario.

La nuova norma penale prevede proprio la resistenza passiva all’esecuzione degli ordini impartiti. Fino ad oggi, a tutto concedere, poteva configurarsi un illecito disciplinare. Domani, se verrà approvato il disegno di legge, i pacifici “rivoltosi” verranno puniti con la reclusione da uno a cinque anni e, se promotori o organizzatori, con la reclusione da due a otto anni.

La norma pare evidentemente incompatibile con il principio di sussidiarietà del diritto penale e persino con il principio di meritevolezza di pena, che trova la sua copertura costituzionale nell’art. 27 Cost. Come affermato, ormai da decenni, dalla giurisprudenza di legittimità in tema di resistenza a pubblico ufficiale, in uno Stato di diritto non si può qualificare come reato il semplice rifiuto all’obbedienza e l’inerzia rispetto ad un ordine impartito.

Ciò vale, a maggior ragione, per chi è ristretto in un carcere e non ha la libertà di manifestare altrimenti il proprio pensiero critico verso l’autorità costituita se non inscenando una protesta non violenta. Le drammatiche condizioni in cui versano i nostri istituti penitenziari meriterebbero risposte politiche ben diverse per rendere la vita in carcere dignitosa e la pena funzionale alla rieducazione del condannato. Il Governo, invece, segue scorciatoie biecamente liberticide, orientate solo a reprimere con la forza il dissenso, pacifico e non violento, di chi la libertà l’ha già persa.

*Avvocato penalista